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Lo dicevano i greci ma in Sicilia è un'altra cosa: cinquanta sfumature di "cataprasima"

Chissà quante volte l'avete (o ve l'hanno) detto. Origini e storia di uno dei modi di dire siciliani più diffusi, per alcuni diventato un vero e proprio stile di vita

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 9 settembre 2024

Pochi giorni fa, ero fuori a passeggio con Marley, il mio cane di mannara domestico, e alla fine di una lunga passeggiata ci siamo fermati entrambi in riva al mare ad osservare il tramonto.

Una scena davvero romantica, in cui Marley, dopo aver scavato un buca, sul fondo della quale mi è sembrato di vedere un cinese per quanto era profonda, ci si è sdivacato dentro “panandosi” tutto il pelo con la sabbia, e io mi sono seduto su un piccolo scoglio a contemplare il sole che s’inniava a dormire e a pensare quando, al ritorno, avrei dovuto sciacquare Marley da tutta quella sabbia.

Accanto c’era una tenera famigliola, padre madre e ragazzina di 16-17 anni, tutti intenti a guardare costantemente e con attenzione lo schermo del cellulare, unico fuori dagli schemi il figlio nico, credo sui 13-14 anni che invece giocava sulla battigia.

Ho pensato, che bello, allora ci sono ancora i bambini che non si rincoglioniscono davanti al cellulare e fanno i castelli di sabbia (premesso che in spiaggia, i castelli di sabbia, li faccio pure io alla mia veneranda età), ma la magia è stata quasi subito distrutta quando il pargolo, rientrando dalla battigia ha urlato al padre:
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«Papà, mi siddiavu a farimi ‘mprestare u cellulare ra mamma, m’accati uno pi mia?».

Il padre senza alzare lo sguardo dallo schermo: «Amunì, appena tuinnamo a casa passamu ru Poseidon e t’ accatto che ormai si fattu grannicellu».

Non voglio aprire una discussione, che sarebbe infinita, su quanto sia giusto o meno comprare il cellulare ai pargoletti di 14 anni, ognuno ha le sue idee ed è giusto che sia così, ma la cosa mi ha fatto riflettere su come son cambiati i tempi ed i desideri adolescenziali.

Oggi chiedono il cellulare, io a 14 anni mi sarei fatto scannare per poter avere il motorino, al massimo ciò che vedo ora sono le, da me detestatissime, miniauto 50 cc e quelle specie di bici elettriche carenate.

Sta di fatto che quando chiesi io il motorino ai miei, la risposta secca fu “NO”, e non mi attendevo nulla di diverso, e per questo motivo avevo già preparato una strategia di convincimento basata sul mittirisi a mignatta e portarsi a rarica ru cerevieddu.

Non avevo fatto i conti con la resistenza dei miei, per cui ad un certo punto, molto meschinamente, mi ritrovai a dover passare all’arma del pseudoricatto, dicendo, "vabbeh allora sono costretto ad andare dietro su quello dei miei amici".

All’inizio la frase non ebbe subito un risultato, anzi sembrava non avesse lasciato segno, ma dopo due giorni, forse a fronte di riflessioni e confronti, mi fu detto che, credo nel vano tentativo di farmi desistere, che ok, avrei potuto avere il motorino, ma dovevo contribuire economicamente.

Senza perdere tempo, il giorno dopo, le scuole erano finite, mio padre mi accompagnò alla Guadagna, presso un cantiere, ove avrei passato l’estate come apprendista muratore.

Mastro Enzo, il capocantiere, si scambiò un tistio con mio padre e a mo' di silenzioso accordo che, sicuramente, non deponeva a mio favore, mi prese in consegna.

Ammetto che, ancora oggi, quell’ esperienza me la ritrovo, ho imparato a usare il cemento, piastrellare, mettere in squadra, a fare lavori di elettricità ed idraulica. Ma tutto ciò aveva un prezzo, e la prima frase che mi rivolse mastro Enzo fu:

«Amunì cataprasima, va accatta a colazione ai picciotti!», lanciandomi una carta da 10.000 lire, colazione la cui pietanza più leggera era l’arancina accarne fritta 3 volte nell’olio motore esausto.

Il resto fu un susseguirsi di: «Cataprasima, passami a cazzuola», «Ti rissi che u rasante l’ha passari i piattu, cataprasima», «Cataprasima, a chiavi i unnici no a dodici», «Ohu ancora unne pronto u cimientu? Alliestiti cataprasima», «Cataprasima va pigghia u cafè».

Tutto in modo alternato fino all’ orario di chiusura in cui venivo salutato con un «ni viriemo rumani i sei cataprasima!», il tutto detto con quel tono un po’ paterno ma mai troppo sdolcinato.

Ma com’è noto, anche le cose “belle” finiscono, così l’estate passò, il ritorno alle istituzioni scolastiche era imminente, e a quel punto il motorino doveva essere comprato, motorino che mi procurò lo stesso mastro Enzo, nella veste di mediatore per una Vespa 50 Special montata con gruppo termico DR 80.

Bellissima e “potentissima”, e consegnatami con la raccomandazione: «Un fari a cataprasima con stu motorino».

Sempre la cataprasima, parola che praticamente era stata una costante durante tutta quell’esperienza.

Probabilmente mastro Enzo non aveva idea che quando usava cataprasima, con tutta probabilità stava parlando pseudogreco, dato che tale termine dovrebbe derivare da Kataplassen, che in greco antico indica l’atto di spalmare sopra.

Nella medicina popolare la cataprasima era un intruglio di farine varie ed erbe officinali cotto molto a lungo, che, applicato sopra una ferita, ustione o “sbattune”, avrebbe dovuto portare alla guarigione, con una consistenza molle, informe e che aveva bisogno di essere continuamente sistemata per non farla scivolare via.

Tale consistenza, nel tempo, venne associata ad una persona moscia, che si trascina e fa tutto lentamente, un po’ allallata, insomma, na cataprasima.

Non mi soffermo sulla reale utilità della cataprasima come medicamento, ma una cosa è certa, faceva un feto che s’abbruciavano i pila ru naso, per cui, chi poteva permetterselo, alla cataprasima aggiungeva del miele e vino aromatico, che, ok che ne riduceva il cattivo odore, ma la rendeva appiccicosa e decisamente camurriusa da rimuovere.

La nuova cataprasima 2.0 prese il nome di pittima, presumibilmente dal greco epithema, che indica qualcosa che si sovrappone ed è di difficile rimozione.

Nel nuovo vocabolario siciliano-italiano di Antonio Traina, troviamo la voce pittima, con indicato, che oltre al medicamento, che il termine viene usato per indicare una persona che annoia ed importuna, proprio per associazione alla natura materiale della pittima.

Nei tempi in cui il recupero crediti era fatto da “ora vengo la e ti sgagno le corna”, prese piede una nuova figura “lavorativa” che prese proprio il nome di pittima.

Metti che impresti piccioli a qualcuno, e poi sto fango fa finta i scurdarisillo? O vai li e ti pigli la questione, oppure assoldi la pittima, che utilizzando lo stalkeraggio e la gogna sociale come armi faceva in modo di far restituire il maltolto.

Poniamo caso che il debitore aveva appena finito di assistere alla funzione domenicale e con tutta a famigghia si apprestava ad accattare i cannoli? A sorpresa spuntava fuori la pittima e i ravanzi a tutti urlava: «Perciò zu Pepè, su scuoiddo che don Gino avanza ancora piccioli i lei? C’ama a fari a scurata?».

Questo tutti i giorni, a tutte le ore, notte compresa, a mignatta, fino a quando, solo solo per esaurimento, il debitore onorava l’impegno.

Il successo della pittima arrivò anche nelle repubbliche marinare, dato che Palermo aveva frequenti contatti con queste, fino al punto che nella Serenissima, divenne un vero e proprio mestiere legittimato e regolamentato dal Doge.

In un ricordo fanciullesco, ricordo mio nonno, in una delle estremamente rare volte in cui lo vidi alterato che disse, ad alta voce, a un tizio che gli chiedeva continuamente favori «Va bene, però mi stai lastimanno comu na pittima».
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