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Lo addenti e non te lo scordi più: il panino con la milza e il segreto che pochi conoscono

L'origine di questa prelibatezza dello street food palermitano affonda le sue radici secoli e secoli fa: nacque tutto per una legge sacra e la bravura di saperci "sgubbare su"

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 19 giugno 2020

Panino con la milza alla Cala di Palermo (foto Dario La Rosa)

Un giorno che mi venne come la signora dei Ferrero Rocher, pure a me, un leggerissimo languorino, trovandomi in zona Cala, in una caldissima mattinata d'agosto, che i sudori e le santiate arrivavano a mare, decisi di colmare quella mia “voglia di qualcosa di buono” andandomi a pistiare una bellissima mafalda con la milza che con quel caldo ci stava come un pirito in un campo concimato.

Mentre il mio colesterolo si stava preparando a sparare botti di Capodanno, bombe di Maradona e fare trenini cantando “a, e, i, o u, ippisilon”, e i fumi di quel prelibato tentato suicidio inebriavano le mie papille gustative, cafuddai il primo bel morso (quello più arraggiato) appizzandoci sana sana la ricostruzione dell'incisivo che il crasto del dentista s'era scordato di farmi a prova di calletti (giuro che è vero).

Il panino alla fine me lo mangiai, e pure il dente forse, ma per il resto delle giornata mi sarei potuto scordare di aprire bocca: questo se non fosse stato per il “meusaro” che, accorgendosi che mi era venuto lo stesso sorriso di King Kong in “Mery per sempre”, volle regalarmi una chicca che, oltre che di buon umore, mi mise la pulce in testa per tutta la giornata.
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«U pani ca meusa, gli ebrei lo hanno inventato!» «daffero?» risposi per colpa della mutilazione all’arcata dentale «non lo fapevo!» Poi, una volta a casa, mentre meditavo di regalare al mio dentista una chilata di biscotti di San Martino duri come le corna, nella speranza che si fracassasse tutta la dentiera, mi tornò in mente sta cosa del meusaro e pensai: «chistu mi pigghiò per il culo perché si scantava che non gli pagavo il panino».

Dunque, acchiappai il pc e iniziai a documentami su quella che avevo creduto solo una bella pseudo minchiata. Il meusaro aveva ragione! A Palermo, fino al 1492, esisteva un bellissima Giudecca che partiva pressappoco dalla zona di Ballarò, da piazza del ponticello per l’esattezza, e arrivava fino alla Fieravecchia (così si chiamava l’attuale piazza rivoluzione perché ci facevano il mercato).

Il quartiere era diviso in due parti. La prima attorno alla Sinagoga - di cui ancora ci sono le tracce in via Calderai - che prendeva il nome di “Meschita” ed era la zona più fighetta in cui ci stavano notai, avvocati, medici e tutta quella Palermo ebraica bene che si annacava e che godeva pure di un certo rispetto. L’altra che, separata da via Mastrangelo, si chiamava “Guzzetta”, un poco più “scatò”, era la zona dove trovavano perlopiù le attività commerciali.

Dopo Federico II, per la verità, la storia degli ebrei a Palermo era stata un po’ tortuosa e caratterizzata da fasi alterne, se non contraddittorie. C’erano stati periodi in cui erano ben voluti da tutti e inseriti perfino dentro le corti e periodi durante la quale erano stati costretti ad indossare una rotella rossa cucita sugl’abiti in modo da rendersi riconoscibili.

In realtà, se proprio vogliamo dirla tutta, serviva pure ad evitare una certa promiscuità, datosi che i picciotti un poco più “brunelli” tra fuitine e imboscatine andavano combinando danno sia da una parte che dall’altra: questa mescolanza di razze ai sovrani e alla chiesa non calava tanto assai. Bisogna pensare che addirittura, per quanto riguarda la questione civile, avevano, entro certi limiti, una certa autonomia legislativa: infatti c’erano i “proti” che erano come dei consiglieri di circoscrizione che venivano eletti a giro e che avevano il compito di smaltire la burocrazia e occuparsi della Giudecca.

Agli ebrei palermitani, però, non gli piacevano tanto sti proti perché si mangiavano tutte cose loro e guarda caso, ogni volta che c’erano le elezioni, venivano elette sempre le stesse belle facce. Non si deve però commettere l’errore di pensare che la Giudecca fosse una sorta di ghetto chiuso nel centro di Palermo o una sorta di campo rom, anche se Ferdinando il Cattolico, al grido di “prima i cristiani”, voleva, dopo che lo aveva sognato una notte, che i suoi scienziati gli inventassero una cosa che si chiama ruspa e che serve per abbattere tutte cose.

Questi, gli ebrei, al contrario, erano palermitani dalla notte dei tempi ed è probabile che quando capitava qualche brutta questione i colpi di “buttana a tua madre” volavano a destra e sinistra. Ora, per tornare al panino con la milza, bisogna dire che questi giudei, effettivamente, eccellevano in quasi tutte le arti: allevavano il baco producendo la meglio seta, erano grandissimi contabili (anche perché si dice tirchio come un ebreo), nella medicina erano i reucci e nel settore delle “carnezzerie” i macellai più abili di tutti.

«Alt, fermati!» «Che è?» «Digli quella cosa della macellazione» «’nkia vero!». Gli ebrei, ahimè, avevano una grossa clausola nel contratto stipulato con Dio: la scannatura era atto così sacro che nessuno si doveva rischiare a sgubbarci da cosa tanto importante. Il bestiame sacrificato doveva essere bruciato perché - e nei capitoli 28 e 29 del libro dei Numeri è ripetuto ben 8 volte- il “fumo”, con la formula “di soave odore all’Eterno”, calmava Yahweh... Maliziosi!

Perciò, siccome fatta la legge nasce la fottuta (e questo dovevano averlo a mente pure gli ebrei di Palermo), si sperimentarono di farsi pagare con le frattaglie, tra cui la milza, che poi rivendevano cotta nello strutto ai palermitani che tanto si mangiavano pure la munnizza.

Purtroppo arrivò il 1492, l’editto di espulsione, e ci fu il Viva Maria. Tutti lo avevano previsto (politici, maghi, opinionisti): a buttare fuori gli ebrei, i palermitani e non solo, se la serebbero scippata nel frack perché, ovviamente, ci starebbe stata la crisi economica, lo spread, la recessione, mogli che si impegnavano mariti e mariti che vendevano le mogli. Neanche a dirlo, alla cacciata degli ebrei, seguì un grande collasso commerciale perché la metà delle attività chiusero.

A niente erano serviti i tentativi dell’amato vicere Fernando de Acuña e di alcuni nobili che si erano mangiati la castagna prima di tutti: gli ebrei se ne andarono portandosi dietro la loro genialità. A metterla in mezzo al pane (e sempre male pensate!), la milza, ci pensarono molto tempo dopo i “caciuttari” . Io ancora non l’ho capito se la colpa del fatto che ci ho appizzato il dente fu degli ebrei o dei caciuttari che hanno usato mafalde troppo dure; ma che il dentista è un grande crasto, su questo, non ci piove.
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