STORIE
"Livatino disse che sarei guarita dal tumore": parla la (miracolata) Elena Canale
Nel giorno in cui la chiesa celebra la sua festa vi parliamo di una storia straordinaria. Un sogno in cui la signora vide il giudice che le indicò la strada
Elena Canale Valdetara
Nel suo sogno la signora vide un giovane dal volto pulito con indosso una tunica che le annunciò: «La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini».
Trascorsero due anni prima che la signora Elena identificasse la figura apparsale in sogno con quella del giudice Rosario Livatino, assassinato a soli 37 anni, il 21 settembre 1990, da quattro giovani della stidda.
Fu allora che rese pubblica la sua storia. Eccola. Il marito Giovanni Canale, di origini siciliane, è geometra e si occupa di coltivazioni biologiche. Lei è insegnante. Hanno due figlie: Cecilia e Chiara, la maggiore. Sono anche genitori di due figli adottivi: Simona, una ragazza down e Francesco, un bimbo affetto da focomelia totale.
Dopo che il giovane con la tunica le disse quelle parole: «La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini», sempre nel sogno, lei e la sua famiglia si ritrovarono trasportati in una festa religiosa, per la ricorrenza delle nozze d’argento, nell’anno Duemila. Alla signora i medici hanno raccomandato di ricoverarsi senza altri indugi per sottoporsi a un ciclo di chemioterapia associata alla radioterapia, all’epoca ancora in fase sperimentale.
Elena ha paura. I medici le danno il 50% di probabilità di sopravvivere al ciclo di chemioterapia, ma non sarà più autosufficiente. È affetta dal morbo di Hodgkin, un tumore maligno che aggredisce il sistema linfatico. Se non si sottopone alla chemioterapia, i medici le preannunciano che avrà altri sei mesi di autosufficienza e al massimo un anno e mezzo di vita.
Elena è di fronte a una scelta drammatica: sottoporsi al ciclo di terapia antitumore e perdere da subito l’autosufficienza, oppure continuare a occuparsi dei suoi familiari, in particolare di Simona e del piccolo Francesco di neppure cinque anni, privo di braccia e gambe?
Come avrebbero fatto con una mamma incapace di badare perfino a se stessa? Elena non sa nulla del giudice Rosario Angelo Livatino.
Come tutti ha avuto notizia del suo assassinio avvenuto quell’inizio d’autunno del 1990, ma ne ignora perfino le fattezze fisiche. E quando lo sogna nella notte tra il 14 e il 15 novembre 1993, non lo riconosce. Tuttavia quel sogno le dà un coraggio che non sapeva di avere. I mesi passano. Elena continua a essere autosufficiente.
Si sottopone a esami ciclici, il tumore progredisce, ma lei s affida totalmente alla Provvidenza. Sente che è la cosa giusta da fare, tuttavia perde peso a vista d’occhio. Nel 1995 pesa appena 38 chili.
Uno scheletro che cammina. Le ghiandole linfatiche sono gonfie e turgide, visibilissime. Le circondano il collo esilissimo come una collana. Premono sotto il diaframma. Le comprimono l’aorta. Il tumore entra nella fase terminale.
Elena non può più rimandare il suo appuntamento con il ricovero. La situazione clinica è irrimediabilmente compromessa. Il 21 settembre del 1995, nel quinto anniversario dell’assassinio del giudice, nell’inserto settimanale del Corriere della sera si parla di Rosario Livatino, magistrato impegnato in prima linea contro la mafia e uomo di profonda fede cristiana negli atti e nei fatti.
Si parla di avvio del processo di beatificazione. L’articolo concludeva: “Si attende anche un segno dal cielo”. A corredo di quell’articolo ci sono le foto del giudice. Elena lo legge e il suo cuore si ferma. Lo riconosce. È lui che le è apparso in sogno due anni prima. Non era un sacerdote come Elena aveva sempre creduto. Era un giudice con la toga.
«Capii in quel momento che c’era un disegno più grande di noi anche nella mia malattia. E mi furono chiare anche le parole del giudice: La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini. Era arrivato il momento di ricoverarmi. Approfondendo la lettura e la conoscenza del giudice, mi fu chiaro che c’era un significato nella mia malattia.
Ne ebbi immediata consapevolezza: Rosario Livatino voleva parlare al mondo attraverso il mio tumore. Non potevo più rimandare. Se quella era la volontà del cielo e io ero lo strumento per testimoniare la santità di quel giudice dagli occhi buoni, avrei acconsentito al ricovero, nonostante la mia paura.
Quell’episodio insomma, mi diede la forza per fare quello che fino ad allora avevo rimandato. E nella testa continuavano a risuonarmi le sue parole: La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini».
E poi continua: «Mi ricoverai al Policlinico di Pavia dove mi fecero la biopsia a una ghiandola prelevata dal collo, mentre prima mi ero sottoposta soltanto a un ago-aspirazione che non attestava al 100% la malattia. Quindi fui sottoposta a biopsia del midollo osseo e gli esami confermarono il male, giunto ormai al terzo stadio. Mi sottoposero a un primo ciclo di chemioterapia, ma alla seconda applicazione fui colta da un violento shock anafilattico che mi portò in punto di morte».
Quando arriva il Natale di quel 1995, mentre nelle famiglie si allestisce il presepe e si addobba l’albero, Elena è in fin di vita. «All’inizio del 1996 alcuni amici, che non si rassegnavano alla mia morte, si adoperarono per raccogliere i fondi necessari ad affidarmi alle cure del prof. Veronesi nel Centro Europeo di oncologia che era stato appena aperto a Milano. All’epoca era privato e bisognava pagare tutto.
Dal terzo stadio non si torna più indietro, però si può alleviare la sofferenza del paziente e quindi i medici provarono a sottopormi a una chemioterapia più leggera. Il tumore però continuava a progredire e dal terzo stadio A passai al terzo stadio B, immediatamente prima del quarto stadio, che coincide con la morte».
Arriviamo ad aprile del 1996. «Devono ripetermi tutti gli esami per essere sottoposta ad agosto a quaranta giorni di radioterapia in tutto il corpo perché il tumore ormai era esteso dappertutto.
Un’ultima disperata carta della scienza medica che viene usata con i malati terminali. Io ero una di loro. Avevo paura. Presi tempo, e quella radioterapia non l’ho mai fatta. Non volevo condannarmi a una morte dolorosa, ed espressi il mio ultimo desiderio: partecipare al pellegrinaggio in Terrasanta organizzato da Famiglia Cristiana. Mi restavano pochi mesi di vita. Mio marito acconsentì».
La donna parte in nave con i miei figli, Francesco e Cecilia. «Prima della mia morte che sentivo ormai imminente, volevo lasciare un ricordo gioioso della loro mamma, in particolare a Francesco, il figlio più piccolo. Volevo portarlo nei luoghi dove aveva vissuto Gesù, per non lasciargli soltanto il ricordo di una mamma ammalata. Quando tornammo dalla Terrasanta qualcosa in me era cambiato».
Dissi ai medici che non mi sarei sottoposta alla radioterapia se prima non mi facevano nuovi esami di controllo. I medici si opposero: Signora, non ha senso aspettare ancora. Rifaremo tutti gli esami dopo la radioterapia. Cosa si aspetta di trovare adesso? Io ero una roccia. No, voglio farli prima.
Quindi presi appuntamento per il 20 settembre 1996, il giorno prima del sesto anniversario dell’assassinio del giudice Rosario Livatino. Ricordo la data perché il professore che mi aveva in cura ritornava dagli Stati Uniti e mi diede appuntamento proprio quel giorno.
A seguito di quella visita, venne fuori la totale remissione alla malattia. Il professore era incredulo, ma io ero perfettamente guarita senza fare alcuna cura.
Anche le ghiandole linfatiche rientrarono nella loro grandezza naturale. Nei cinque anni successivi sono stata controllata ciclicamente, ma non c’era più traccia del tumore. Tutti i valori erano rientrati nella norma».
Alla gioia della guarigione dal tumore certificata dalla scienza quel 20 settembre del 1996 e reiterata nei mesi successivi, subentra l’immane dolore, due anni dopo, per la morte improvvisa di Cecilia, a seguito di incidente stradale. La perdita di un figlio è un dramma che non si può raccontare a parole.
Solo chi ha provato lo stesso dolore può capire lo strazio di Elena e di suo marito. Eppure Elena prova a reagire. È guarita dal tumore, ma ricorda ancora le parole del giudice che, da quella notte di novembre 1993, non ha più sognato: "La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini". E lei vuole aiutare altri bambini.
Una settimana dopo la morte di Cecilia, la sogna. Sua figlia tiene un bambino per mano. Il messaggio è chiaro ed Elena decide di accogliere un’altra vita nella sua famiglia. Le istituzioni però le sbarrano la strada: hanno già adottato due ragazzi diversamente abili. E lei è sotto controllo medico. Il tumore può tornare ad aggredirla in qualsiasi momento. È una persona a rischio. Lei e suo marito sono già avanti con gli anni. Non possono più adottare altri bambini.
Elena pensa che i bambini si possono aiutare in molti altri modi e così mette a disposizione la sua casa per accogliere provvisoriamente dei bambini in fase pre- adozione.
E arriva Andrea. Doveva restare soltanto per qualche mese. E invece diventa il loro quinto figlio. E nell’anno Duemila, così come Rosario Livatino le aveva fatto vedere nel sogno quando l’aveva trasportata in un altro luogo e in un altro tempo, Elena e la sua grande famiglia partecipano al Giubileo con il grande papa Wojtyla. E lì, tra le istoriate mura del Vaticano, racconta la sua storia al papa. E testimonia che la vita è anche altro. Soprattutto altro.
Nei mesi seguenti la guarigione, viene messa in contatto con il parroco di Rosario, padre Li Calzi. Con la sua famiglia Elena scende più volte in Sicilia e incontra anche i genitori di Rosario, nella loro casa a Canicattì, al civico 166 di via Regina Margherita. E con loro scambia un abbraccio lungo una vita.
Insieme si portano sul luogo dove il giudice è stato assassinato, a ridosso della 640 Ag-Cl. Mettono a dimora una piantina di rose. Poi l’ultima visita, al cimitero, dove Rosario riposa e dove, negli anni lo hanno raggiunto prima mamma Rosalia e poi papà Vincenzo.
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