STORIA E TRADIZIONI
Le feste sono quasi finite ma non siamo (ancora) sazi: perché in Sicilia "addubbiamo"
Una parola, la cui origine rimane sconosciuta, e che al solo nominarla conferisce a qualunque pranzo o cena un senso di sazietà estrema. Ma ci sono tante sfumature
Usare il termine "chiunu - pieno" sarebbe troppo approssimativo; così si punta alla potenza fonetica delle doppie di addubbare - saziare. M’addubbai generalmente è ciò che arriva sonoro dopo la prima, seconda, terza e infinita portata.
Una parola, la cui origine rimane sconosciuta, e che al solo nominarla conferisce a qualunque pranzo o cena un senso di sazietà estrema; non a caso significa anche rimpinzare, riempire.
Da non confondere con il termine ornare oppure allestire, esso è ancora molto utilizzato; tanto da rendergli omaggio pure il grande scrittore empedoclino Andrea Camilleri.
Nel romanzo del 2003 “Il giro di boa” lo troviamo quando uno dei personaggi per cena doveva accontentarsi di un pasto frugale e addubbarsi con tanticchia di cacio o aulive o sarde salate o salami”.
Rappresenta il non plus ultra della rassegnazione a quell’ultimo bicchiere di amaro, manciata di frutta secca o fetta di torta. E ad accompagnare il suo significato esiste pure un macrocosmo figurativo che varia a seconda dell’ospite interessato.
C’è chi pronuncia la parola allentando il bottone dei pantaloni per scongiurare un impellente danno sartoriale; chi se ne fa scudo per raggiungere al più presto un divano o un letto dove passare le sue ultime ore festive (si spera solo quelle); chi lo brandisce per scongiurare una pietanza poco apprezzata.
E mentre la tavola si svuota per passare allo step successivo, cioè una partita a carte a "Ti vitti, Cucù o Sette e mezzo" non importa in quale angolo della casa ci si trova, arriverà sempre il padrone di casa, l’ospite o il parente di turno pronto a scalfire quel m’addubbai con una sola, potente e amorevole frase: "Chi vuole una fetta di panettone?".
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