TRADIZIONI
L'aranciata si mangia, la pasta reale è salata: in alcuni posti in Sicilia tutto può accadere
Cucine popolari e cucine nobili esibiscono sfarzose scelte culinarie soprattutto a Natale. La Sicilia è una terra che anche in fatto di cibo non smette mai di stupire
L'aranciata modicana
Natale è stare insieme a tavola per ritrovare affetti familiari e rafforzare rapporti amicali che rischiano di perdersi nella frettolosità di ogni giorno.
E la Sicilia è regina nell’espressione del calore dei sentimenti e della più generosa ospitalità. Cucine popolari, per necessità povere, e cucine nobili che esibiscono sfarzose scelte culinarie, in questi giorni si affollano di ingredienti, utensili, voci, diventando vere e proprie fucine gastronomiche, accomunate dal piacere della convivialità, magari con la stessa ricetta preparata in mille modi diversi.
Benvenuti dunque in Sicilia a Natale! Curiosiamo in qualche cucina. Siamo a Ragusa Ibla dove, in una ricorrenza speciale come il pranzo del 25 dicembre, troviamo un ricco e importante primo piatto: la Pasta Reale (chiamata anche “Zuppa d'uova”), una sorta di pan di Spagna salato, tagliato a dadini e servito in un brodo fumante.
Restando negli Iblei, Modica gode di una variegata tradizione natalizia che va dal “Pastizzu di ricotta”, uno scrigno di pasta frolla contenente maccheroni conditi con ricotta e salsiccia, alla cosiddetta “aranciata" che non è una bevanda ma un dolce fatto di scorze d'arancia macerate in acqua per un paio di giorni, tagliate a striscioline e cotte con zucchero, miele, noci, mandorle e cannella.
In origine era un dolce natalizio povero, di recupero delle bucce di tutti gli agrumi disponibili, nel tempo è diventato una golosità.
Conquistando l'isola gli Arabi portarono una vera rivoluzione nelle abitudini alimentari dei Siciliani e zucchero, mandorle, agrumi e cannella sono il denominatore comune di molte altre ricette, tutte di ascendenza araba: ad esempio, a Grammichele, in provincia di Catania, durante le festività natalizie si preparano ancora i “Cuddureddi ‘i meli", antico dolce le cui origini risalgono al XV secolo.
Ci spostiamo nelle Madonie, a Polizzi Generosa, dove ancora oggi per la cena della Vigilia si prepara un'antica ricetta, la “Caponata di Natale”, detta anche – vedremo perché - "u cunigghiu". Gli ingredienti di questa preparazione sono carciofi, cuori di sedano, cardi, patate, zucchine essiccate o fresche, pomodori secchi, olive e capperi, finocchietto selvatico, cipolle, baccalà ammollato; il tutto viene fritto e poi ripassato in una salsa di pomodoro agrodolce.
Sembra che questa pietanza invernale fosse spesso nella cucina dei nobili un accompagnamento per alcune portate di cacciagione tra le quali, come dice il nome, il coniglio, mentre nelle famiglie più povere lo stesso piatto non comprendeva la cacciagione ma bastava a dare l'illusione di consumare un piatto aristocratico!
Naro, paese in provincia di Agrigento, è patria non del ricco panettone ma dei semplici “Viscotta di Natali” il cui profumo però, grazie all'utilizzo del lievito di birra, può forse ricordare il più “nobile" dolce milanese.
Per confezionarli, come ci racconta Giuseppe Coria, la sera si impastano 2 kg. di farina di Maiorca con 500 gr. di sugna e l’acqua necessaria, si lascia riposare ( in dialetto locale “fari frisculiari”) tutta la notte e l'indomani vi si aggiungono 500 gr. di zucchero e 120 gr. di lievito di birra. Dall'impasto, lavorato a lungo, si formano biscotti che devono lievitare un paio d'ore prima di essere infornati.
E ancora, come dimenticare la “Gallina di Noto", maestosa pietanza sulle tavole dell'omonimo centro barocco del siracusano? Si tratta di una ricetta piuttosto elaborata perché richiede la preparazione del volatile che va disossato e poi farcito con un impasto di riso lessato, un mix tritato di lonza, interiora di pollo, cipolla, aglio e prezzemolo, uova, pangrattato (ovvero muddica, dalle nostre parti), caciocavallo e parmigiano grattugiati, sale e pepe.
Una volta riempita, la gallina (o il pollo) va legata, cucita con ago e filo bianco e messa a cuocere in forno per circa un'ora e mezza, su un letto di carote e cipolle, bagnandola con un bicchiere di vino.
Dopo averla sfornata, per facilitare il taglio a fette va tenuta sotto un peso finché raffredda e, finalmente a tavola, la pietanza va servita con la salsa ricavata dal suo fondo di cottura sgrassato e filtrato.
Faticoso, ma che trionfo! Due mondi, due stili di vita o, come scrive il prof. Ninni Giuffrida, una diversa “sintassi gastronomica" quella siciliana che ritroviamo nell'eterno contrasto tra mangiare di ricchi e mangiare di poveri. Ne leggiamo testimonianza in due menu di Natale, tratti dai registri contabili, messi a confronto dall'autore.
Il primo, della comunità del Real Collegio Carolino Calasanzio di Palermo prevede per la Vigilia soltanto pesce (prevalentemente azzurro, tra cui le tradizionali sarde a beccafico), pane e vino; per il pranzo del 25 invece una pasta al ragù, insalata, frutta e ( persino!) delle sfogliatelle dolci. Niente panettoni e pasti che non si possono certo definire di festa.
A tanta essenzialità fa riscontro il menu proposto da un monsù di casata, Salvatore Ragusa, a servizio presso la famiglia Lanza Branciforte di Trabia: niente pesce, una gran quantità di dolci, torte, mousse, budini, e soprattutto una scenografica mise en place del cibo, a sottolineare l'elevato rango sociale.
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