CRONACA
Il workaholism, la Dad e la nostra casa: come diventare infelici in piena pandemia
Si riflette poco su quanto sta progressivamente accadendo all'interno dello spazio vitale della casa, il luogo intimo e riservato in cui manteniamo e coltiviamo le relazioni affettive
Su questo versante esiste un'abbondante letteratura sociologica e psicologica. Con queste categorie sono stati introdotti cambiamenti oramai ampiamente conosciuti e in alcuni settori occupazionali smartworking e homeworking sono diventati parte integrante dell'organizzazione del lavoro. In generale però si riflette poco su quanto sta progressivamente accadendo all'interno dello spazio vitale della casa, il luogo intimo e riservato in cui manteniamo e coltiviamo le relazioni affettive.
Recentemente e in stretta aderenza con il periodo corrispondente alla diffusione del covid-19 è stato presentato da Stefano Tripi e Giorgio Mattei un interessante report sul lavoro agile nelle Pubbliche Amministrazioni italiane. Secondo gli autori nella fase della pandemia, la diffusione della pratica del lavoro da casa (si preferisce qui usare questa definizione) ha determinato una diminuzione dello spazio sia fisico, sia psicologico, tra vita privata e vita lavorativa.
Val la pena ricordare che di stress lavoro-correlato non si muore, quanto meno non si finisce in terapia intensiva con i sintomi gravi del covid-19. Questo non vuol dire però che non ci si ammali di altre patologie che si possono cronicizzare interessando permanentemente una significativa fascia di popolazione.
Sopra ogni cosa il lavoratore e lo studente stressato conducono una vita caratterizzata da un grado sempre più basso di benessere psico-fisico, sviluppando uno stile di pensiero e un modo di interagire con il mondo sempre più privato della libertà personale e intima.
A miei alunni ricordo sempre le parole chiave elaborate dall’economista più amato e odiato della storia, autore del manifesto più famoso, perché sono ancora efficaci per comprendere le caratteristiche basilari che dovrebbe mantenere il lavoro e qualsiasi occupazione per ciascuno di noi. Credo possano valere in qualsiasi tempo, anche nella post-modernità di questa pandemia strana in cui il virus, che per sua natura è grezzo, sembra invece allearsi con il sistema produttivo e dell’istruzione, amplificando limiti e difetti di una visione del mondo basata sulla prestazione.
Vale sia nel lavoro che nell’istruzione. Spontaneità, volontarietà e creatività sono i fattori che dovrebbero sempre animare ogni attività lavorativa umana, manuale o intellettuale, anche nella semplice operazione di sostituzione del flessibile di un sanitario del bagno.
Lo stress correlato al lavoro è uno dei fattori più pericolosi per la salute pubblica e lo ritroviamo alla base del fenomeno del burnout, in particolare nella sindrome ormai ampiamente conosciuta del Workaholism. Con questo termine tecnico-scientifico, che meriterebbe di entrare nel lessico comune, si intende rappresentare la dipendenza dal lavoro, una forma di intossicazione che tende a non abbandonarci mai, nemmeno quando non lavoriamo.
Tornando alla casa ed al significato che assume per noi, uno spazio vitale intessuto di interrelazioni primarie, facendo leva sui sentimenti di libertà individuale mi viene in mente l’immagine della casa-impalcatura su cui si regge la nostra vita. Il sonno, le pause dagli impegni quotidiani, il relax, i silenzi, gli sbalzi d’umore, il prendersi cura di sé e degli altri, le pulizie del sabato, la sistemazione della spesa sono incombenze buone che ci riguardano da vicino, una routine che ci ricorda anche la nostra identità, ciò che siamo diventati.
A questo servono le case e per questa ragione le arrediamo secondo il nostro gusto. Quando è possibile le cambiamo con altre case che diventano un altro nostro modo di essere, qualcosa che sentivamo stava accadendo dentro di noi e richiedeva uno spazio vitale nuovo.
Pensando alla casa mi vengono in mente alcune situazioni quotidiane: la possibilità di rimanere sotto la doccia più del dovuto in una condizione certo non rispettosa della risorsa dell’acqua (ma tanto rientra nei nostri piccoli difetti e, semmai vivi con qualcuno, sanno che sei uno sprecone!), i vezzi radicali e soggettivi di vivere materialmente gli spazi come, ad esempio, la possibilità di girare seminudi e di sentire la musica, accendere la tv, leggere un libro accucciati nell’angolo del divano preferito.
E ancora rifugiarsi e isolarsi dal mondo, ballare, saltare, cucinare qualcosa per noi, fare la pizza o un dolce con gli altri, stare a letto mentre fuori scoppia un temporale. Si tratta di situazioni fortemente emotive, rappresentative di una relazione con lo spazio intima e riservata.
Il workaholic è il nemico numero uno della relazione intima con la casa, una sindrome pericolosa perché si nasconde negli stili di pensiero ideologizzati e cerca una giustificazione continua per farci accettare la riduzione della nostra vita al lavoro. E’ camaleontico e si mimetizza con facilità. Per alcune ragioni è considerato una dipendenza difficile da curare: in primo luogo è invisibile per il lavoratore che vive una condizione quasi anestetizzata rispetto ai bisogni e ai desideri, in secondo luogo per l’azienda il lavoratore diventa una risorsa umana molto produttiva.
Letteralmente si traduce con "sindrome da alcolista da lavoro" o “sindrome da dipendenza da lavoro”, inficia la felicità personale, toglie creatività e indebolisce sia la condizione di salute generale, sia le relazioni interpersonali. Approdare al lavoro agile o, per bambini e studenti, alla dad in risposta emergenziale non ci ha dato il tempo di comprendere quanto stava accadendo e come stava cambiando la nostra vita nel luogo più importante, la casa.
Il lavoro agile, la scuola agile realizzata in questo lunga fase di emergenza, trascinandosi le frustrazioni dei lavoratori e insabbiando la speranza di tornare alla socialità pre-pandemica non sono per nulla intelligenti e non migliorano il benessere sociale. Forse non vi erano alternative ma questi processi andavano accompagnati con un investimento nella comunicazione sociale.
Se penso alla mia casa, così come l’ho vissuta nell’ultimo anno, in lockdown, in dad (da docente e da genitore), ai miei figli che fanno lezione per ore dietro un monitor, agli isolamenti che camuffati di colori caldi si avvicendano continuamente, alle postazioni dad disseminate nel mio spazio che sembra sempre più piccolo, al wi-fi che in alcuni momenti arranca, ai miei gatti che mi guardano ora affettuosi e compassionevoli, ora sbigottiti perché non vedono l’ora di recuperare spazi territoriali, mi viene voglia di cambiare casa, di desiderare altri spazi e recuperare quella vecchia forma di silenzio espressivo, che non ha prezzo.
È un silenzio che abbiamo imparato a coltivare nel tempo, dentro un'antropologia dello spazio più prossimo ai nostri desideri, che ci fa sembrare le nostre case infinitamente grandi e belle.
Credo che il lavoro agile e la dad abbiano contribuito a rendere infelice una buona fetta di lavoratori e di famiglie. Se ne è parlato troppo poco, in nome di un’ideologia igienico-sanitaria, una forma di scientismo applicata al lavoro ed alla scuola in cui si sono persi i tratti tipicamente umani della socialità.
Penso allora alle colazioni frettolose di tutta la famiglia per correre al lavoro o a scuola sicuri che poi si tornava, ovviamente a casa.
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