ITINERARI E LUOGHI
Il nome ricorda un antico mestiere: il borgo siciliano tra mulini e la (splendida) fontana
Un paesaggio aspro ingentilito da prati all’inglese. La prima cosa che si nota è l’imponente bastionata rocciosa di centinaia di metri che sembra un vero dipinto
Il borgo di Alcara Li Fusi
Un fine settimana del calendimaggio col gruppo "Camminare i Peloritani" abbiamo intrapreso un’escursione di due giorni nel territorio di Alcara Li Fusi comune di 1700 ab.
Ad un’ora e mezza di macchina da Messina, lato tirrenico. Giunti al borgo la prima cosa che abbiamo notato è stata l’imponente bastionata rocciosa alta centinaia di metri tutta in verticale che lo sovrasta e risplende sotto i raggi solari di luce bianca, ma in taluni luoghi essa assume sfumature rosa e rossicce.
L’abbiamo guardata a lungo perché trattasi di un paesaggio non usuale. Dopo spostandoci un po’ più avanti ai confini del paese in direzione Palermo ci è toccato ancora guardare all’insù perché la nostra attenzione è stata calamitata da Castel Turio che ha una figura slanciata e che si erge su uno sperone roccioso con ai piedi la piccola chiesa della S.S. Trinità ove si trova uno splendido Belvedere.
Non per niente una volta c’erano i filatoi per la lavorazione della seta: "Li fusi" appunto. Ci siamo soffermati alla monumentale fontana Abate con le sue vasche in pietra e i ventiquattro cannoli da cui sgorga un limpido ed abbondante flusso d’acqua.
Salendo un po', non distante dalla fontana in posizione riparata rispetto alla strada principale, abbiamo visitato il mulino ad acqua oramai in disuso che si erge fra le canne del fiume, i muri a secco e le pale dei fichi d’India fra lo scrosciare abbondante del torrente Stella con le sue cascatelle.
Dopo una sosta al bar, ci siamo inoltrati per le vie principali del paese costituite da acciottolato, linde e silenziose. Qui più che altrove abbiamo avuto l’impressione che il tempo si fosse fermato. Tutte le persone con cui abbiamo parlato ci hanno concesso più delle informazioni che avevamo chiesto arricchendole con vari aneddoti.
Abbiamo visto la chiesa del Rosario con un bel portico del XV secolo e che costituisce uno splendido monumento di architettura rinascimentale. Era presente pure il Monastero delle Vergini Benedettine con un museo di Arte Sacra che custodisce sculture lignee. C’era pure al chiesa di Maria S.S. Assunta di epoca bizantina.
Appena fuori dal paese vi era ancora una chiesetta avvolta dalla vegetazione che aveva un suo particolare fascino e che mi ha fatto ricordare la poesia “L’aquilone” di G.Pascoli in cui appunto si parla di chiese : "Che erbose hanno le soglie… ".
Terminata la visita al paese, abbiamo iniziato l’ascesa che ci avrebbe portato sulla sommità delle Rocche del Crasto 1.312 s.m.
Si è trattato di fare una serie interminabili di scalini scavati nella roccia e ben transennati da una robusta ringhiera di ferro. Non mi era mai capitato di farne così tanti, forse solo una volta che sono salito su quelle del Duomo di Milano; ma erano altri tempi.
Tirando un po’ il fiato e sopportando qualche dolorino ai muscoli adduttori delle gambe, siamo alfine pervenuti alla sommità dell’imponente bastionata.
Oltre a scorgere numerosi spuntoni rocciosi, la nostra vista è stata attratta da un’immagine inaspettata e riposante. Un magnifico prato all’inglese, grande anche più di un campo di calcio, ma in leggera pendenza.
Evidentemente lassù ci sarà un microclima che ne ha favorito la formazione. Per chi non lo sapesse questo tipo di prato è speciale perché perfettamente drenante. Esso è costituito da un sotterraneo fittissimo intreccio di piccole radici ancorate al terreno e necessita di quattrocento anni per formarsi.
Qui abbiamo pure ammirato le agili e superbe figure di cavalli in libertà che vedendoci si sono allontanati con movimenti leggeri, quasi che si librassero nell’aria. Dopo abbiamo col nostro percorso ad anello imboccato la discesa fra cristallini massi rocciosi affioranti dal terreno e ciuffi di fibrosa ampelodesma altrimenti detta disa.
Davanti ai nostri occhi si aprivano vasti paesaggi mentre laggiù in fondo scorgevamo il triangolo chiaro compatto dell’abitato di S. Marco d’Alunzio e la sagoma più allungata del Comune di Militello Rosmarino. Oltre ancora c’era l’azzurro del mare. Da queste parti ci sono oliveti che crescono proprio a ridosso della spiaggia.
Via via camminando siamo stati distratti dalla selvaggia bellezza di varie formazioni rocciose che la pioggia aveva scolpito nelle effigi più ardite: guglie, torri, pinnacoli.
La rudezza della pietra era un po' mitigata dai tanti anemoni dai colori sgargianti e dalle ferule pure loro in piena fioritura con i loro lunghi steli da cui si dipartivano tanti rametti con i fiori gialli a palla come dei lampadari.
Il giorno dopo abbiamo iniziato il nostro cammino su un sentiero in terra battuta, fino a quando non siamo giunti su un declivio costituito da balzi terrosi, ciuffi di ampelodesma , macchie di rovi, ma anche qualche spazio occupato da tenera erbetta.
Come piantati sul terreno si ergevano blocchi compatti rocciosi perfettamente in verticale color piombo somiglianti a ruderi di palazzi o di castelli.
Eravamo giunti ai piedi di Rocca Calanna una elevazione che si staglia di netto verso il cielo. Abbiamo indirizzato lo sguardo verso l’alto perché su una sporgenza rocciosa è insediato il nido di una colonia di grifoni o aquile reali. Qualcuna in effetti l’abbiamo visto volteggiare nell’aria con le sue grandi ali spiegate.
Invece per riuscire a vedere distintamente il nido ci vorrebbe un binocolo. La vista più stupefacente è stata però quella di una parete di un centinaio di metri perfettamente levigata interamente coperta con delle vivaci colorazioni in fasce verticali: sembrava che un pittore impressionista si fosse dilettato a dipingerla con varie sfumature dal blu al violetto.
La stessa parete nella parte inferiore era avvolta di una fitta copertura vegetale di minuscole foglioline che sembrava che la rivestissero di un drappo verde.
Dopo abbandonata la spianata abbiamo iniziato l’ascesa e come direbbe il poeta le dolenti note incominciarono a farsi sentire perché ci siamo arrampicati attraverso ardui sentieri per giungere alla cima della rocca, 1.015 s.m.
Qui abbiamo trovato ammassi rocciosi di colore chiaro, irregolari e frastagliati, incisi da profonde pieghe e scanalature come se fossero seghettati, ma al centro c’era pure un avvallamento coperto di tenera erbetta a mitigare l’asprezza del paesaggio circostante.
Qui è anda via la stanchezza non solo perché ci siamo concessi una pausa, ma anche perché la vista di ampi orizzonti: il monte Soro, l’intera chiostra dei monti, ha sempre l’effetto di fare dimenticare qualsiasi cura o ambascia.
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