ARTE E ARCHITETTURA
I palermitani e quello strano rapporto con la nera signora: come nasce il Trionfo della morte
All'inizio era all'ospedale grande e gli ammalati erano costretti a subire la vista della morte durante il periodo di convalescenza. Ma in realtà tutto ha una spiegazione escatologica
Dettaglio del Trionfo della Morte esposto al museo di Palazzo Abatellis
«Io son colei che sì importuna e fera
chiamata son da voi e sorda e cieca
gente a cui si fa notte innanzi sera.
[...]
Ed ecco da traverso
piena di morti tutta la campagna,
che comprender non può prosa né verso.
Da India, dal Cataio, Marocco e Spagna
il mezzo avea già pieno e le pendici
per molti tempi quella turba magna.
Ivi eran quei che fur detti felici,
Pontefici, regnanti e 'mperatori;
or sono ignudi, miseri e mendici»
(Dai Trionfi di Francesco Petrarca)
Gli anni tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo furono turbolenti per la Sicilia a causa delle lotte per la Corona del Regno innescate in special modo dai Chiaramonte conti di Modica che aspiravano ad essere vicari del Regno di Sicilia. Nel 1420 Alfonso d'Aragona, detto “il Magnanimo”, fu proclamato re delle due Sicilie.
Nel suo Regno la Sicilia conobbe un'importante mescolanza artistica e culturale capace di importare artisti da diverse parti dell'Italia e dell'Europa. Su tutte, le influenze catalane, franco-provenzali e dei Paesi Bassi si noteranno nello stile dei pittori siciliani che mescoleranno queste influenze con l'ancora esistente stile “Gotico Cortese”.
In questo stesso anno «veniva estesa a Palermo la prammatica, già promulgata al tempo dai Martini, che agevolava l'accorpamento e acquisizione di immobili per decoro e abbellimento della città»; dal 1421 agli anni cinquanta del Quattrocento re Alfonso farà realizzare l'imponente portone meridionale della Cattedrale di Palermo.
Non di meno a questi, nella capitale del Regno diede modo di fabbricare il molo detto la Cala nel 1445 per agevolare il traffico delle merci e dare un'impronta commerciale di prima linea alla città.
Fu volere dello stesso re Alfonso anche la realizzazione di un grandissimo nosocomio che potesse riunire tutte le cellule ospedaliere sparse per la città: «È noto che l'ospedale grande di Palermo, sotto il titolo dello Spirito Santo, fu fondato nel 1435 nell'antico palazzo della famiglia Sclafani, il quale avea eretto Matteo Sclafani conte di Adernò nel 1330» nel piano del Palazzo Reale, tra l'odierna piazza Vittoria e piazza S.Giovanni Decollato.
Si disse che l'edificio originario, un'enorme mole quadrata, fu voluto dal conte Matteo per competere con lo splendido Palazzo Chiaramonte Steri di piazza Marina, costruito non molti anni prima: «Acceso di spirito di superbia e di emulazione fra uguali detto Sclafani, in ordine a grandezza di grossignore, col fu Manfredo Chiaramonte, primo conte di Modica in Chiaramonte, da cui era stato eretto pochi anni avanti il famoso palazzo chiaramontano alla Marina, fra il giro di un solo sole gloriosamente fu ad edificarlo». Così narrava il marchese di Villabianca.
Competizione a parte, il palazzo Sclafani è uno dei pochissimi esempi rimasti di architettura medievale trecentesca a Palermo. «Il detto palazzo al momento della fondazione (dell'ospedale) apparteneva al Magnifico Sig. Sancio di Rodorico de Lyori Visconte di Gagliano in Sicilia, e che in Spagna abitava, e non trovandosi sua leggittima persona in Palermo per trattarsi la compra del palazzo, il senato nulla ciò ostante si servì del medesimo, che si trovava rovinato, inabitabile, e discoperto, ma nello stesso tempo, avendo riguardo ai dritti del Visconte, lo fece apprezzare, e fu stimato il suo valore di fiorini mille di Aragona, che importarono once 150 di moneta siciliana».
Il Visconte confermò e accettò la somma stipulata davanti al notaio Francesco Presbitero Leone il 12 agosto 1435. Dice inoltre il Cavaliere Gaspare Palermo che «nell'atrio maggiore di esso (ospedale) nell'estensione del muro meridionale è dipinto a fresco un gran quadro antico del trionfo della morte a Cavallo, e sotto della stessa una strage di Pontefici, Imperatori, Re, Principi, Signori, ed altre persone...» cita poi alcuni nomi di possibili autori dei quali si dirà dopo.
“Umana cosa è l'avere compassione degli afflitti” scrisse Giovanni Boccaccio nel proemio del Decameron e sembrerebbe averne avuta re Alfonso nel creare questo enorme centro ospedaliero che mancava nella capitale. «Al maneggio di tale affare fu scelto il P. Giuliano Majali benedettino di S. Martino, uomo fornito di virtù, di talenti, e di prudenza e che per la santità della vita era in alta stima e del Re Alfonso, e della Corte Romana».
L'ospedale grande di Palermo cessò la sua funzione nel 1852, quando al suo posto vi fu trasferito il quartiere militare della Trinità. Oggi è la sede del Comando Regione Militare Sud. La necessità di una struttura ospedaliera centralizzata non dovette essere esente dall'influenza della peggior epidemia di peste mai registrata prima del 1348, lo stesso può dirsi del magnifico affresco del Trionfo della morte che sino al 1954 era custodito all'interno di Palazzo Sclafani, commissionato probabilmente dallo stesso re Alfonso per l'ospedale grande.
Si potrebbe storcere il naso pensando che gli ammalati erano costretti a subire la vista della morte durante il periodo di convalescenza, ma in realtà tutto ha una spiegazione escatologica. Il popolo del Medioevo, specialmente nel periodo tardo, aveva costantemente davanti agli occhi la visione della morte, basti pensare alla precarietà della vita, che secondo Dante durava circa settant'anni, inoltre la potenza delle immagini infernali dantesche, ricavate dalla Divina Commedia, sicuramente avrà fatto breccia nel folklore popolare: all'inferno piombarono papi ed imperatori, chierici e nobili, popolani e gran signori.
Immaginate la costante paura scaturita dagli inquisitori e le processioni macabre degli ordini religiosi, i fanatismi, le esasperazioni dei flagellanti che si percuotevano in pubblico “a sangue vivo”; non dovette allontanarsi tanto Ingmar Bergmar ne “Il settimo sigillo”. La salvezza era raggiungibile attraverso la più aspra sofferenza.
Tutto ciò ovviamente andava a mescolarsi d'altro canto col benessere delle corti, un mondo completamente opposto e apparentemente lontano dai problemi di vita quotidiana che tuttavia si riconciliava col popolo nel mondo della sofferenza in hora mortis. Nel Medioevo l'orrido entra a far parte della vita quotidiana, e non ne è mai più uscito, specie se pensiamo a quanto ancora oggi ne siamo affascinati.
Umberto Eco, nel suo breve saggio sulla bruttezza, citando san Bonaventura, scrive che « l'immagine del diavolo è bella se ne rappresenta bene la bruttezza. E quindi l'arte ha dato del suo meglio nella rappresentazione della bruttezza del diavolo. Ma la gara a rappresentar bene la bruttezza ci fa sospettare che in realtà ci sia stato, seppur sotterraneamente un vero piacere dell'orrendo, non solo nelle varie visioni dell'inferno».
Dunque, è in questo contesto che vive il maestro del Trionfo della morte di Palermo, ancorato sempre alla tradizione artistica medievale, riscontrabile nell'incoerenza spaziale o dimensionale delle immagini, e non ancora approdato all'innovazione rinascimentale, sebbene già ampiamente diffusa al nord Italia.
Tre importanti precedenti
Dopo la mortifera peste del 1348, il tema del Trionfo della morte si diffuse specie tra chiese e camposanti. Prima della realizzazione dell'affresco palermitano gli artisti che volevano confrontarsi con un tale soggetto, dovettero certamente conoscere e vedere il Trionfo della morte di Buonamico Buffalmacco che si trova nel camposanto di Pisa, realizzato tra il 1336 e il 1341. Si tratta di un affresco altrettanto grande sito «sull'estremità orientale del braccio meridionale del camposanto». Sono presenti, oltre a questo, altri due affreschi importanti, in uno vi sono raffigurate le Storie dei santi Padri e nell'altro Il Giudizio Universale con l'Inferno.
È interessante fare un parallelismo di immagini con il nostro affresco. Intanto anche nel caso dell'affresco di Buffalmacco compaiono diverse scene apparentemente separate tra loro. In basso a sinistra si vede una combriccola di giovani ben vestiti a cavallo che, mentre passeggiano per un sentiero, incontrano tre cadaveri in fasi diverse di decomposizione.
Sopra i cadaveri e davanti i giovani vi sta un frate che dispiega un cartiglio sul quale però non si legge nulla nonostante i recenti restauri. Altri due frati nella parte alta, vicino quello che pare un monastero, sono intenti a pregare o meditare.
Se questa scena appare lenta, scandita da movimenti appena accennati, dall'altra parte l'affresco si anima incredibilmente. La morte è una vecchia coi capelli lunghi e bianchi, brandisce una falce e vola grazie ad enormi ali di pipistrello. Sotto di lei sono ammucchiati una serie di cadaveri che un tempo rivestirono ruoli importanti nell'alta società.
Poco discosti da questi, alcuni mendicanti invocano la vecchia per porre fine alle loro sofferenze. Svolazzano nella concitazione del momento angeli e demoni che si contendono le anime dei defunti. Imperturbabili, infine, all'estrema destra della scena, una serie di giovani intenti a godersi i piaceri della vita.
Un altro interessante affresco precedente al nostro Trionfo è quello di Bartolo di Fredi, realizzato nel 1360 circa per la chiesa di S. Francesco di Lucignano, in cui la morte è un uomo che corre a cavallo coi capelli lunghi e grigi e scaglia frecce col suo arco; ha una falce nella sua cintola; sotto di lui vi stanno cadaveri di uomini e donne; nella scena lo precedono dei mendicanti che lo invocano, mentre lo seguono due ignari cacciatori. In alto a sinistra l'immagine di Cristo li ammonisce perché non sanno quando la morte li colpirà.
Un'altra scena simile a quella del Fredi è raffigurata nel tempio dei domenicani di Bolzano. Uno scheletro alato a cavallo fa strage con la sua falce, preceduto da mendicanti che lo invocano e fiancheggiato da due scene che rimandano al Giudizio, all'Inferno e al Paradiso. L'opera trecentesca sarebbe stata attribuita a Vitale da Bologna.
Il Trionfo dell'Abatellis
Dopo i danneggiamenti subiti a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, si decise nel 1954 di trasferire l'affresco del Trionfo della Morte di Palermo da Palazzo Sclafani al già esistente Museo di Palazzo Abatellis. Qui il grande affresco sarà allestito in quello che un tempo era stato il presbiterio della originaria chiesa della Pietà. Staccato e diviso in quattro parti, verrà ricomposto su di un enorme pannello con le ruote. Oggi è possibile ammirarlo da due punti di vista: dal basso verso l'alto al pian terreno della cosiddetta Sala II del Museo di palazzo Abatellis e in posizione molto ravvicinata; dall'alto verso il basso dal piano superiore della sala e a diversi metri di distanza. Tutto ciò per concentrarsi sui più minuti particolari da un punto o osservarne la magistrale complessità dall'altro.
Descrizione dell'opera
Nel complesso il soggetto non si differisce molto dagli altri affreschi che affrontano lo stesso tema. Anche qui la morte è il tema centrale. È rappresentata da uno scheletro a cavallo che scocca frecce dal suo arco e tiene una grande falce nella cintola. Galoppa verso dei giovani ignari e calpesta una moltitudine di cadaveri di alta estrazione sociale, tra i quali papi, re, imperatori, vescovi e monaci, ebrei e giuristi mentre si lascia alle spalle dei poveri mendicanti che la invocano. In mezzo ad essi vi starebbero l'autore dell'opera e forse un suo aiutante.
Entrando più nel particolare si può dare al dipinto una chiave di lettura più soggettiva. La morte per legge di natura è una livella, non fa sconti a nessuno, neanche a quelli che, rispetto al popolo comune, sembrerebbero immortali, anzi da quello che si vede proprio questi sono i primi a farne le spese, quasi vi fosse un sottile monito di vendetta contro quella società che infligge sofferenze al popolo inerme.
Eppure nel momento ultimo della vita questi personaggi, che sembrerebbero usciti dalla corte di un principe, appaiono se non terribilmente spaventati, umanamente fragili e cercano e trovano il conforto di qualcuno che gli stringe la mano nel momento del trapasso. Proprio le mani intrecciate paiono essere un tema importante anche se indecifrabile, forse rimandano al conforto. Dare la mano o chiederla prima di morire è certamente confortante, sicuramente lo è per gli ammalati terminali di un ospedale; ai nostri giorni sembrerebbe essere perfino un lusso avere la mano cara di una persona che ci conforta nell'agonia di un letto d'ospedale.
Nella parte destra dell'affresco vi è un gruppo di tre donne che si tengono per mano. Ricordano le tre grazie. Pare che non avvertano la morte che si dirige verso di loro, come se rappresentassero l'Amore che non può essere scalfito dalla morte. Sopra di loro un musico che accorda il suo strumento, anche egli è sito in una dimensione parallela, immune alla cattiva sorte.
In alto a destra si vede un gruppetto di tre giovani attorno alla sorgente della vita: due conversano tranquillamente, uno suona la lira e l'altro da le spalle all'osservatore, tiene un falcone al braccio e sembra guardare verso un futuro di speranza, oltre quella siepe che lascia immaginare un mondo migliore. Sembrano giovani spensierati e intenti a godersi i piaceri della vita.
L'ultimo enigmatico soggetto è un paggio che tiene a freno due cani. Parte del suo mantello poggia (non a caso) sulla falce, e si dirige in senso opposto alla cavalcata della morte. È stato accomunato a San Vito, ma potrebbe anche rappresentare il passato, magari un passato mortifero come quello della peste del 1348, o un'altra più recente rispetto alla realizzazione del dipinto, e quindi un monito a coloro i quali sono ancora vivi e non sono stati toccati dalla “nocchiera della notte”.
Queste potenti immagini, che un tempo erano affiancate a quelle di un altro affresco raffigurante il Giudizio Universale, non si trovavano all'interno di una chiesa, un oratorio o un camposanto, bensì dentro un ospedale. Certo la morte non è una presenza che ci si aspetta di incontrare in un ospedale e tra coloro che soffrono e sperano di guarire, ma forse raffigurarla mentre colpisce gli altri è un modo per esorcizzarla.
La questione dell'autore
L'attribuzione del dipinto è purtroppo una bella incognita. Sono state fatte diverse ipotesi in base allo stile e alle influenze artistiche, ora catalana ora borgognona-provenzale, che caratterizzano l'opera. Scrive Michele Cometa «Certo, nell'affresco rilucono le onde lunghe del Trionfo pisano, (1336 - 1342 ca.), affiorano gli stilemi di maestri catalani e fiamminghi, le trame degli arazzi del Devonshire e di Borgogna, i profili individuali di mille volti alla Van Eyck, le escrescenze carnose dei retablo valenciani, le morbide stoffe del Pisanello e i suoi schizzi nervosi [...] ».
Tra i nomi degli autori compare quello del Pisanello, di Gaspare Pesaro, di Riccardo Quartararo, Vincenzo il Romano, Peris Gonzalo, Antonello da Messina e altri che avrebbero lasciato delle tracce nell'affresco. Scrive Umberto Santino «Il problema delle firme, già posto nel 1821 da Agostino Gallo, è stato riproposto nel 1966 da Giuseppe Consoli che avrebbe individuato le lettere ICRE sul polsino del Maestro e le lettere SSANES su quello dell"aiutante", ipotizzando che il primo fosse il pittore borgognone Guillaume Spicre e il secondo Antonello da Messina».
Forse, però, ad oggi la nota più interessante sull'argomento è quella di Maria Grazia Paolini che non rivela la vera identità dell'autore del Trionfo, anzi crea ulteriori dubbi, ma anche nuove aree di ricerca «Tuttavia sia il Bottari che la Guerry non hanno considerato l'unico fatto degno di qualche rilievo emerso in questi ultimi anni, ed è il ritrovamento, nei lavori di distacco del dipinto dal muro originario di “due foglietti di carta solvente e bombaginosa”, pigiati in un foro della pietra d'Aspra al di sotto dell'intonaco asportato.
I due foglietti al momento del ritrovamento erano assai bagnati, ma rivelarono ugualmente tracce di scrittura, che furono
immediatamente fotografate, prima che l'inchiostro asciugandosi scolorisse, come di fatti avvenne». In questi foglietti erano riportate due date (2 e 15 gennaio 1441) e due nomi, uno dei quali Giovanni Russo. Tale Russo, afferma la stessa Paolini, fu riscontrato tra le maestranze che lavorarono al riadattamento di palazzo Sclafani come ospedale.
Sebbene ormai apparentemente accantonata, vorrei riproporre l'intuizione di Agostino Gallo in merito all'autore dell'affresco e trascrivere le sue parole nel tentativo di invogliare gli storici ad indugiare ancora sul nome di Antonio Crescenzio e del suo aiutante Tommaso Vigilia, entrambi palermitani: «Nel 1821 volendo io far lucidare le teste de' due personaggi con distintivi pittorici, che ivi si veggono, e guardando da vicino attentamente, vi osservai scritto nella manica dell'abito d'uno di essi, CRE..... e lettere seguenti corrose, e indiscifrabili; non esitai allora un momento a creder quell'opera del Crescenzio».
Un altro affresco importante era presente all'interno di palazzo Sclafani, probabilmente contemporaneo al Trionfo della morte e dello stesso autore. Era questo Il Giudizio Universale purtroppo perduto completamente per fare posto ad una scala nel 1713. Con questi due affreschi dell'ospedale grande di Palermo dovette confrontarsi il nostro Pietro Novelli quando realizzò per lo stesso luogo Il Paradiso.
Il Trionfo della Morte nel panorama artistico
Oltre ad avere avuto dei riferimenti precedenti che hanno affrontato lo stesso tema, il maestro del Trionfo della morte di Palermo avrà avuto sicuramente modo di conoscere, o meglio. vedere le opere di Pisanello, in particolare San Giorgio e la principessa nella chiesa di Sant'Anastasia di Verona o la tavola della Visione di Sant'Eustachio che oggi si trova alla National Gallery di Londra; nel castello di Manta l'affresco di pittore ignoto che riguarda La fontana della giovinezza; le opere dei fratelli Zavattari, in particolare Le storie della regina Teodolinda.
Però, se il maestro del Trionfo della morte di Palermo è stato sicuramente influenzato dal contesto di pittori che lo avevano preceduto, si può supporre allo stesso modo che la sua opera influenzò artisti importanti che lo succedettero nei secoli. Si pensi ad esempio alla Guernica di Pablo Picasso, in cui il surreale cavallo che nitrisce e calpesta il cadavere di un guerriero medievale che stringe ancora l'elsa di una spada franta ricorda lo scheletrico animale del Trionfo di Palermo che galoppa furente.
Lo stesso cavallo del Trionfo non sarebbe apparso vecchio di cinquecento anni se collocato in un quadro di Dalì o Magritte. Infine, chissà se la concitata confusione che si avverte nell'affresco dell'Abatellis non abbia, dopotutto, influenzato così tanto quel famoso Renato che la volle dipingere in maniera più composta nel suo celebre quadro de La Vucciria.
Considerazioni finali
Palermo ha sempre avuto un rapporto strano con la morte, pare che la città l'abbia sempre corteggiata. «Tu zione corteggi la morte» si sentì dire il principe Salina dal nipote. Ebbene è vero, i palermitani forse corteggiano la morte, la invocano come i mendicanti dell'affresco. I cittadini nei secoli l'hanno resa protagonista della quotidianità, l'hanno resa brutale, raccapricciante, e infine hanno imparato a convivere con essa.
È una presenza vitale la morte in questa città. Nel senso che grazie a lei si parla della vita: “quella buon'anima” di chissà chi torna a rivivere rappacificato col mondo dopo la sua morte. La morte imminente, il tempo che sta per finire, ci fa pensare alla vita inevitabilmente, lo sapeva bene Vim Wenders, quando girò il film Palermo Shooting, mettendo in bocca a Danis Hopper, che interpreta la morte, queste parole: «Io amo la vita, la porto nel cuore. Voi mortali non avreste nessun apprezzamento della vita senza di me» in una scena girata nel cuore della memoria della città di Palermo, cioè all'Archivio storico comunale, dove le pagine ingiallite dei documenti brulicano di vita vissuta.
Nell'affresco dell'Abatellis la presenza della morte è incombente, terrificante, eppure risparmia i più deboli, li lascia guardare mentre miete le sue vittime, magari per insegnargli qualcosa, forse il senso della vita, che non si aggira tra la povertà e la ricchezza. Quello scheletro apocalittico che galoppa in un hortus conclusus, un giardino chiuso senza chiari riferimenti spazio-temporali, non si rivolge solo all'umanità del suo tempo, ma sta insegnando anche a noi oggi la via, mormora «carpe diem» cogli l'attimo «ora et nunc» qui e adesso, perché il senso della vita è vivere, esistere finché puoi, finché ti è concesso.
Tutti un giorno ci ritroveremo nella stessa collina, trapassati, a rivangare ciò che siamo stati, come fanno ancora oggi i morti di Spoon River. Saremo anime che racconteranno se stesse. Quei mendicanti che lo invocano non ci sono estranei, siamo noi, per questo il cavaliere della morte ci lascia ancora in vita, affinché possiamo apprezzare e vivere nel miglior modo possibile il tempo che ci è concesso prima di abbandonare per sempre le mortali membra del nostro corpo.
(Per approfondimenti sul Trionfo della morte di Palermo consulta Michele Cometa Il trionfo della morte di Palermo: un'allegoria della modernità; Umberto Santino Un cavallo e la fontana: dipingendo il trionfo della morte; Maria Grazia Paolini Il trionfo della morte di Palermo; Evelina De Castro Dal Gotico al Rinascimento: le stagioni dell'arte; Pedicone Sebastiano Giovanni Il trionfo della morte di Palermo: un memento mori dai mille colori; Strinati Claudio Il trionfo della morte a Palermo, documentario)
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