STORIE
I fritti "magici" del panellaro di via Pittalà: l'infanzia a Bagheria al chiosco (scomparso)
L'"uomo del fritto" del cuore a Bagheria come a Palermo, da Franco o dal mitico zu Cicciu. Tutti portano avanti l’antica tradizione delle vellutate frittelle di farina di ceci
Panino panelle e crocchè
Ecco, a Bagheria le lancette segnano sempre l’ora della “leggerezza”...infatti uno degli spuntini più gettonati, e in alcuni casi richiesti sin dalla colazione, è il pane e panelle.
Nulla di nuovo mi direte voi. A Palermo del resto ci sono stati u zu Cicciu, Franco e chissà quanti altri che hanno portato avanti l’antica tradizione delle vellutate frittelle di farina di ceci.
Dei recenti fatti tristi che hanno visto la scomparsa prima del Palumbo, tra i fondatori dell’antica friggitoria risalente agli anni ‘50, che ad oggi detiene il monopolio delle panelle più famose e apprezzate a Bagheria e, poco dopo, di Natale Martorana, altro panellaro che portava la ricetta baariota in giro per mercati e feste di paese dell’isola, hanno riacceso in me un ricordo che mi induce a chiedervi aiuto.
Certo dovevano essere buone se qualcosa nella mia mente è rimasta dopo tutto questo tempo. Siamo nei primissimi anni ‘90 e, salendo lungo u stratuni verso il Palazzo, che per noi è ovviamente Villa Butera, sulla sinistra, in una di quelle viuzze non propriamente giganti del centro storico, proprio all’inizio della strada, sulla sinistra ancora una volta, vi si trovava il panellaro dove andavo con i miei nonni materni.
Saracinesca alzata e banco vendita a pelo marciapiedi, tappezzato di mattonelle, sopra una sorta di separè in vetro che proteggeva le mafalde e il padellone con l’olio caldo per friggere costantemente panelle a tignitè.
Il locale in sè era minuscolo per cui come capitava con i chioschetti, l’acquisto lo si faceva su strada, al passaggio. In questo caso però, il panino con le panelle poteva costarti la vita perchè le macchine passavano proprio dietro di te, pronte a portarsi via un pezzetto...ma credetemi che ne valeva la pena!
Era un continuo via vai di involucri marroncini, simil carta di pane per “assuppare” meglio l’olio in eccesso. Operai in pausa, ragazzi che dovevano andare a scuola, famiglie come nel mio caso che avevano quel punto di riferimento per lo spaccio di panelle. I miei ricordi, come è comprensibile, non sono propriamente nitidi, mi perdonerete...è per questo che chiedo il vostro supporto.
Innanzitutto, come si chiamava questo “panellaro dimenticato”? Ho provato a spremere le meningi con familiari e amici ma proprio non riusciamo a risalirvi e, domanda ancora più pruriginosa, che ne è stato?
Probabilmente avrà chiuso per anzianità e la tradizione non è stata portata avanti dai figli che hanno scelto altre strade, o almeno così mi auguro. Io di lui non ho ricordi, solo delle sue magiche panelle. E poi, per assurdo, mi sono arrivati più racconti sul prima che sul dopo di questo posto.
Lì accanto, o forse al piano di sopra, pare vi sia stato il Commissariato e anche l’Ufficio delle Entrate, chissà di che profumini godevano tutto il giorno...ma dopo il panellaro, il nulla.
Oggi, passando, la saracinesca è ancora lì, chiusa, ma la curiosità di sapere se proprio lì dietro vi sia ancora il bancone dei miei ricordi e le pareti impregnate di frittura è tanta. Intorno credo vi siano ormai abitazioni private e forse qualche ufficio, è su Corso Butera che la situazione si “movimenta” un po’ di più.
Dopo il panellaro dei miei ricordi, ho quasi sempre mangiato panelle fatte in casa da mia madre che, in linea con le mode del tempo, prima “scazzuolava” (scusate il gergo muratoresco) l’impasto dentro la latta dell’olio di semi Olita per farle tonde, e poi in più pratiche vaschette di plastica rettangolari.
Ogni casa poi ha le sue abitudini e c’è chi usa bottiglie di plastica o chi, più tradizionalmente, le spatola sul piano di marmo. Nel gusto questo a mio avviso è abbastanza irrilevante.
Ciò che conta è la qualità della farina di ceci, che Maddalena, la mia attuale fornitrice ufficiale e amica di famiglia, acquista generalmente direttamente al mulino, e i polsi saldi che servono a mescolare l’impasto man mano si va addensando e staccando dalle pareti del tegame.
Farle buone o fare un guaio una volta che l’impasto inizia il processo di ebollizione è proprio questione di attimi. A proposito di tradizioni familiari, voi come le fate? Da me c’è sempre stata l’apprezzata variante con semi di finocchio, che però non piace a tutti, probabilmente la più diffusa è quella col prezzemolo alla palermitana o semplici, senza nulla.
Di recente ho scoperto che c’è chi mette il pepe nell’impasto e questa proprio mi mancava...io poi amo il connubio panelle e crocchè, e mai mi sognerei di spremere il limone sulla panella, consuetudine di tanti, perchè sono una purista del settore! Il panellaro della mia memoria, se i ricordi non sono troppo sbiaditi, optava per la versione semplice per accontentare tutti i palati.
Non troppo spesse così che rimanessero morbide e farinose all’interno, senza “inchiummare”, con quel sottile strato superiore e inferiore che come pelle si staccava una volta a contatto col panino.
E a proposito di pane...con la panella va accostata rigorosamente la mafalda e non tutte le moderne versioni a base di grani antichi e farine ottenute da moliture particolari.
Lui, il panellaro di via Pittalà, lo sapeva bene, e se mi fermo un momento sono di nuovo lì, con mia nonna che tiene salda la mia mano e d’improvviso intorno a me tutto acquisisce dimensioni inquantificabili come sempre accade quando siamo piccoli e il mondo ci sembra un posto gigantesco.
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