STORIA E TRADIZIONI
Hanno ispirato filastrocche, canzoni (e proverbi): la "storia" dei babbaluci in Sicilia
Sono state fin dall’antichità uno dei capisaldi dell’alimentazione sicula, e come sappiamo, spesso dalla nostra tavola "inizia" la nostra cultura popolare
Una lumaca
Vuoi perché nella zona dove abitavo era pieno piano di giardini a mandrina e strade libere dove poter fare gare di carrozzoni e partite a pallone interminabili, vuoi perché anche le "vacanze" le passavo in un piccolo paese vicino Messina, dove il mare stava a pochi metri dall’uscio di casa, al punto che sviluppavo le branchie e cominciavo a parlare con i pesci a tipo Acquaman., quando, cresciutello dovetti andare ad abitare nel classico appartamento in condominio in mezzo la città.
La situazione mi andava un po' stretta, maturando sempre più il desiderio di poter avere una casa con giardino, per cui, ora che sono riuscito a realizzare la cosa, ho dato libero sfogo al mio lato ""wild", anche se forse esagero dato che non c’è momento in cui non torni a casa con piante o fiori, con la mia dolce metà che mi fa notare come stia trasformando il giardino in una specie di Jungla subtropicale, e che sarebbe bello poter avere anche la possibilità di andare in giardino senza necessariamente vestirsi da esploratore e munirsi di machete.
Ma comu arraggiunanu? Io m’ammazzo a vita per mantenerlo bello vivo e vigoroso che c’ha fari u pesto e poi su pistiano r’accussi? Quindi, mi sono appostato, mimetizzandomi tra le fresche frasche tipo cecchino per cercare di scoprire il colpevole.
Ed eccolo li, u Babbalucio, ca minutedda, portandosi dietro la "casetta" che madre natura gli ha dato senza manco chiedere il garante pu mutuo, lui, con flemma britannica acchiana sulla pianta, si posiziona su una foglia bella in carne e accumincia a brucare ra bella, che ci mancava picca che mi chiedesse pure un tocco di vino per digerire meglio.
Appurato che alla fine sugnu un fissa e, quindi, di usare un veleno per lumache non se ne parlava proprio, ne avevo cuore di toglierla di li e lanciarla lontano, memore degli insegnamenti di mio nonno, ho riempito 4-5 ciotoline di birra e li ho collocati in paziente attesa.
Dato che i vecchi metodi raramente sbagliano, si arricugghiero a gruppi per farsi una bella bevuta, e ubriache come scimmie, anzi come Babbaluci, fare una specie di schiticchio alcolico riservato a soli gastropodi, a forza di gare di rutti e giocando ad acchiana u patri cu tutti i so figghi.
Raccogliendoli, ho riempito facilmente un panaro, per poi, delicatamente, adagiarli in un terreno abbandonato li vicino, conscio del fatto che, probabilmente, sarebbero tornati, quantomeno per farsi un’ altra bevuta, ed avrei dovuto ripetere l’operazione.
Ora sono conscio del fatto che mio nonno, ed anche molti altri siculi DOC, avendo a disposizione tutti sti Babbaluci alcolici, non avrebbero mai fatto quest’ atto di liberazione, ma avissiro fatto a loro volta un bello schiticchio di Babbaluci a picchio pacchi o friuti cu l’agghia e petrusinu, ma io sono io, e nonostante sia un siculo abbastanza "verace", non sono mai riuscito a mangiare i Babbaluci, con somma vergogna della mio identità trinacriale e di mio suocero che ne è un fine intenditore.
Le lumache, in particolar modo i Babbaluci, in effetti, sono stati fin dall’antichità uno dei capisaldi dell’ alimentazione sicula, e siccome, spesso e volentieri, noi dalla tavola facciamo derivare la nostra "cultura popolare", vi sono anche "dotti" testi che riguardano questi animaletti.
Famosissima è la filastrocca “viri chi danno”, trasformata in canzone da Roy Paci e gli Aretuska, che con il ritornello “viri chi danno che fanno i Babbaluci, ca cu li corna isano i balati”, va a farti capire come questi molluschi, ostinati come pochi, e lavorando in gruppo, siamo capaci di sollevare il coperchio del panaro in cui vengono imprigionati anche se sopra è stato collocato un peso.
Anche se, come recita un vecchio proverbio, "fimmini a vasari e Babbaluci e sucare un ponnu mai saziare". Ai tempi che furono esisteva anche la figura del babbaluciaro, mestiere tra i più ingrati, che aveva il suo massimo durante il festino di Santa Rosalia a Palermo, giorno in cui, in città, si sente un solo unico rumore di sucata, dato che i Babbaluci assieme u muluni, sono il piatto tipico.
U babbaluciuaru si susiva ca prima matinata, sapendo che se vi era stata pioggia avrebbe trovato abbondanza di Crastuna, lumache grosse e dal corpo e guscio piuttosto scuri, se invece era il periodo estivo, in mezzo a rovi e spine, avrebbe trovato quelle piccole e bianche o striate, i babbaluci, a volte detti anche Vavaluci per via di quella sorta di bava che lasciano lungo i cammino (dalla quale oggi addirittura derivano prodotti di alta cosmesi), e con la quale riescono a fare anche un piccolo tappo all’ ingresso della conchiglia per i momenti di riposo, motivo per cui sono chiamati anche attuppateddi.
Onestamente non quale sia la reale differenza a livello culinario, ma u babbaluciaro fa attenzione a distinguere tra Babbaluci, Vavaluci e Attuppateddi, a seconda del momento in cui li ha raccolti, fermi, in movimeto, o attuppati.
Da questo mestiere, anticamente fatto spesso, spessissimo, dai più umili, nasce il detto, quando qualcuno ni sta cuntannu mimchiate o s’allattaria senza motivo, “ma vatinne a cuogghiere Babbaluci!” che equivale a mandarlo a quel paese.
D’altronde, i Babbaluci, sono protagonisti anche delle relazioni amorose clandestine, infatti per qualcuno/a chi avi corna ca stricano nell’ arco i Cutò, si usa dire che ha chiù corna di un panaro i Babbaluci.
Di lumache se ne nutrivano persino i Sicani nella notte dei tempi, continuando per i Greci che le consideravano un prelibato piatto ed ai quali si deve il nome originario, dal greco Boubalakion con cui si indicavano sia i bufali che le lumache, per via delle corna, nome che poi subì un ulteriore evoluzione durante la dominazione Araba (fatevene una ragione, gli Arabi in Sicilia ci sono stati ed hanno influenzato pesantemente la nostra cultura) dal termine Babush che stava ad indicare la tipica pantofola araba da donna con la punta arrotondata verso l’alto, e che ricordava parecchio la spirale della chiocciola.
Persino i Romani ne erano ghiotti, al punto che Plinio il giovane nel suo “Naturalis Historia” nel 49 a.C., parlò di Fulvio Lippino, primissimo a creare, in Sicilia, tecniche di allevamento per le lumache, nutrendole con carne cruda, farro e mosto cotto, per poi commerciarle, trasportandole dalla Sicilia fino a Roma.
Nella medicina storica popolare siciliana, i Babbaluci, pestati nel mortaio, unitamente ad alcune litanie, venivano usati come efficace rimedio per le congiuntiviti, e, date da mangiare, a chi soffriva di deperimento e problemi epatici.
Il loro uso culinario fu abbandonato intorno al 1700, quando i nobili, che si sentivano tutti allittrati, si diedero all’ alta cucina, e cominciarono a considerare i Babbaluci come cibo scatò, salvo poi tornare alla ribalta nel 1800 con i francesi, che a quei tempi erano i primissimi food-influencer, quando il principe Tayllerand le offrì come prelibato piatto allo Zar Alessandro I.
Persino Pitrè ne parla nel suo testo "Feste patronali in Sicilia", riguardo lo spropositato consumo che i siciliani ne facevano, e fanno, proprio in occasione delle feste, soprattutto durante il festino che alla fine tanto "ino" proprio non è.
La sucata la tecnica più usata per cibarsene, i più esperti fanno un forellino sul guscio con un canino e poi applicando una forza pressoria di suzione pari alla pressione interna del guscio (leggasi sucata cu scrusciu) fanno uscire il gasteropode cotto.
I chiù finuliddi utilizzano uno stuzzicadenti o apposito uncino per prendere il mollusco, ma guasta del tutto quel momento di convivialità data dalla sucata collettiva!
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