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Figure osè e scollature scandalose: quando Palermo mandò al rogo i "ventagli francesi"

Dalla Francia "tentatrice" erano giunti nell’isola, nella seconda metà del Settecento, libri proibiti, ventagli licenziosi e una grande libertà dei costumi

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 14 giugno 2024

Alexander Roslin

Nel secondo Settecento, un’aria di rinnovamento, alimentata dalle idee di Voltaire, di Rousseau e di numerosi illuministi ed enciclopedisti, sembrò esser penetrata persino nella retriva Sicilia.

Il Vicerè Caracciolo, giunto a Palermo col cuore infranto, dopo 10 anni di attività diplomatica a Parigi, aveva cercato seppur con difficoltà di realizzare diverse riforme, ispirate dalle più importanti idee dell’illuminismo francese.

Nel marzo 1782 ad esempio con forma solenne il sovrano Ferdinando III aboliva l’Inquisizione Siciliana e il giorno 27 dello stesso mese il Vicerè Caracciolo provvedeva alla chiusura delle carceri dell’Inquisizione, dopo aver liberato tre donne, le uniche prigioniere rimaste.

Le poverette vennero più volte sollecitate ad uscire, perché rinchiuse ormai da chissà quanto tempo, si rifiutavano di andar via.

Vennero distrutte le odiose insegne e le gabbie di ferro utilizzate per esporre le teste dei condannati a morte e un anno dopo, nel 1783, l’antico archivio dell’Inquisizione veniva dato alle fiamme nel piano della Marina, con una solenne cerimonia pubblica.
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I roghi a Palermo tuttavia non erano ancora finiti, perché l’anno successivo, il 13 Luglio 1784 il governo, in rispetto della pubblica moralità, faceva un altro grande falò per mano del boia, incredibile a dirsi, di ventagli francesi: ventagli di tutte le forme e dimensioni, di seta e di carta, con stecche di osso e di avorio, giunti direttamente da Parigi.

Si trattava di ventagli che non riparavano dal sole e che non facevano vento: erano licenziosi oggetti, con figure osè e scritte minute, che riportavano il testo di certe canzonette francesi così oscene “da far arrossire anche i libertini".

In questo squarcio della seconda metà del Settecento, scrive lo studioso Giuseppe Pitrè dichiarandosene mortificato, Palermo era infatti “città dissoluta”, dove tutte le lascive mode francesi avevano preso piede: dai cicisbei alle audaci scollature femminili che nulla lasciavano all’immaginazione, dalle vesti di mussola trasparenti al tabacco da sniffare “in caso di infermità”.

Viaggiatori stranieri come Brydone e Bartels scoprivano con sorpresa che la vita nel capoluogo siciliano era sfrenata e licenziosa: "il tenore di vita di società è libero e piacevole, e più leggiadro per le nubili”" scriveva Bartelsm mentre Riedesel notava che le signore palermitane erano in preda a una grande libertà e che i mariti s’erano spogliati d’ogni gelosia.

Un anonimo francese appuntava che soprattutto le donne fornivano aneddoti alla cronaca scandalosa.

Nulla era vietato, ma bisognava farlo di nascosto, senza dare troppo nell’occhio. La città formicolava di portantine e carrozze, che avevano anche una funzione galeotta: «La desiderata Marina è sempre il luogo favorito di certa gente», scriveva il Pitrè: ovviamente il rischio aumentava il piacere.

La vita privata non dell’intera popolazione, ma di una sparuta classe, quella aristocratica “si poteva paragonare ai ventagli parigini di cui Palermo era piena. Chiusi sembravano del tutto innocenti. Ad aprirli c’era modo di poter visionare l’intero pacchetto cochon della mitologia greca e romana".

E ancora “Il concerto di musica non cominciava mai prima della mezzanotte e la passeggiata a mare era sempre gremita. Le signore avevano il diritto di andarci sole, con la propria carrozza o qualche servo fidato, o a coppie nella carrozza di un’amica compiacente. Le nubili facevano conoscenza precoce dei piaceri mondani". (Zullino, Guida ai misteri e piaceri di Palermo).

Dalla Francia “gran tentatrice” erano giunti dunque nell’isola, nella seconda metà del Settecento, insieme ai libri proibiti e ai ventagli licenziosi, una grande libertà e una certa rilassatezza dei costumi.

Ad ordinare il sequestro e il rogo dei ventagli francesi era stato Francesco Ferdinando Sanseverino che dal 1776 era Arcivescovo di Palermo e che nel 1784 era stato nominato presidente del Regno durante l’assenza del vicerè Domenico Carracciolo.

Il 7 luglio 1784 il prelato aveva scritto all’avvocato fiscale della Gran Corte, tale Perremuto, raccontando quanto segue: avendo sentito dire che presso alcune botteghe di galanteria si vendevano "ventagli con bizzarre figure, con la Confessione e la Comunione", aveva voluto verificare egli stesso con i propri occhi ed “era rimasto scandalizzato del fatto che a maggior danno del veleno dell’empietà istillato negli spiriti deboli, si aggiungesse la stampa di certe canzonette francesi, per le quali mettevansi “pure in derisione i più sagrosanti misteri della nostra religione”.

Sanseverino aveva incaricato l’avvocato di proibire il commercio di tali ventagli e di trascinare in tribunale chi li aveva introdotti. Ma esattamente cosa aveva destato la collera del prelato?

Ci fornisce la risposta il Marchese di Villabianca, nei suoi Diari, spiegando che i ventagli recavano “dipinta la figura di un confessore in atto di amoreggiare colle penitenti, avviando cotal soggetto certe canzonette francesi, che vi si leggevano. Con tali ventagli mettevasi perciò in berlina il sacrosanto sacramento della Penitenza”.

Inoltre l’Arcivescovo si sentiva ribollir dall’ira perché i ventagli erano tra gli orpelli osceni più condannabili: un libro stava sugli scaffali, una stampa stava in una cornice in una stanza segreta della casa, ma… un ventaglio! Un ventaglio si portava fuori, ci si sventolava in pubblico, cadeva sotto gli occhi di tutti, dei bambini, delle fanciulle e dei ragazzi.

Scriveva ancora Giuseppe Pitrè: “Pure il malcostume al quale si chiudeva la porta entrava per la finestra; e le frequenti arsioni di merci proibite non impedivano che si facessero strada costumanze licenziose; anzi esse diventavano patrimonio comune appunto quando le autorità si moltiplicavano nello sbarrar loro la strada”, come a dire “ciò che più si vieta, uom più desia” (T.Tasso).

Tuttavia l’odio per i ventagli francesi non terminava col rogo del 1784 ma si riaccendeva qualche anno dopo, per motivazioni diverse da quelle dell’arcivescovo San Severino.

Re Ferdinando e la regina Maria Carolina vollero fare un falò ai Quattro Canti di bandiere della Repubblica Partenopea nata il 23 gennaio e durata 5 mesi e 20 giorni, il fuoco venne alimentato anche da ventagli, da libri come il codice di Napoleone e da altri oggetti alla moda che venivano da Parigi.

Constatato che la via delle riforme sfociava nella rivoluzione e nella repubblica re Ferdinando era diventato di colpo oscurantista e reazionario.

I tempi stavano cambiando, cominciava a tirare appena un filo di quel vento bigotto della restaurazione, che una volta scomparso Napoleone avrebbe rimesso i sovrani delle antiche case regnanti sul trono, auspicando un ritorno al passato.

La restaurazione del 1815 avrebbe presto spazzato via quella libertà di costumi e quella licenziosità che fu comunque a Palermo un privilegio aristocratico e che non mise mai veramente in discussione i principi religiosi, morali e politici della società isolana.
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