STORIA E TRADIZIONI
Era nera, la vedevi la notte a Palermo: la "lupa della Kalsa" che rapiva i bambini
Un racconto o una storia vera. Non sono rimasti riferimenti scritti ma soltanto le voci di chi all'epoca era bambino e si terrorizzava vedendo "sparire" i coetanei
Piazza Kalsa a Palermo in un'immagine d'epoca (foto Facebook)
Stanno seduti su un muretto, uno degli innumerevoli sventrati dai bombardamenti alleati. Il gioco a cui stanno giocando prevede che i partecipanti stiano assittati sul muretto mettendo le gambe in bella vista.
Nel frattempo, quello più bravo in matematica, quello che se la fida meglio a contare, recita la suddetta filastrocca numerando i piedi. Quello su cui cade l’ultima sillaba viene eliminato dal gioco. Eliminati tutti e due i piedi, eliminato anche il concorrente. Quest’ultima regola vale per tutti, tranne che per Tanino.
Lui la gamba l’ha già regalata alla primavera del 1943, quando al posto di arrivare le rondini arrivarono stormi di aeroplani. Peppino lo sa e gentilmente passa al piede successivo, regalandogli un giro d’onore. «Peppì, va stoccati u cuoddu e muaviti!».
Pochi spiccioli, ma quanto basta per apparecchiare un piatto di pasta. E poi qualche conserva ci esce sempre; qualche scatoletta si fotte sempre. Mastro Pietro però scimunito non c’è.
«Peppì, che hai dintra le sacchette?» «Niente!» negare, negare sempre. «Peppì, dice u proverbio: “cu è curnuto è curnuto a lu so paisi; cu è minchia è minchia unniegghiè”».
Significa semaforo verde, significa che per quella volta se le può portare a casa le scatolette. Poi di nuovo a giocare, di nuovo con gli amici del muretto.
I catoi - quei tuguri fatti di un’unica stanza- sono troppo piccoli per contenere tutti, quindi si sta per la strada mattino e sera. Si sta per la strada fino a quando non scura, fino a quando non arriva la Lupa.
Dopo le bombe, a spaventare i picciriddi di Palermo c’è lei: la maledettissima Lupa. È vero che siamo nell’immediato dopo guerra, ma figli d’arregalare non ne tiene nessuno, specialmente le madri, specialmente se la guerra gli ha già portato via i mariti. E così, di notte, alla Kalsa, ma non solo alla Kalsa, quando il sole scende e muore, la Lupa esce dalla tana e va cacciare ciò di cui va più ghiotta: i picciriddi. Certe volte, se ha fame, la Lupa caccia in pieno giorno.
Le raccomandazioni sono sempre le stesse: «Torna presto, non t’allontanare dalla Havusa, suddu incontri la Lupa corri forte, corri a casa, Peppì!».
La brutta bestia che terrorizza i bambini palermitani, però, al contrario di quanto si pensi non possiede artigli, non ha zanne, non ulula verso la luna. La Lupa che li rapisce facendoli sparire nel nulla ha invece quattro ruote, è decapottabile e nera come la pece. Nessuno sa da dove venga, né da chi sia mandata.
Si insinua tra vicoli dei quartieri disagiati, tra le palazzine dilaniate e senz’anima, e come il cavallo nero del famoso dipinto “Il Trionfo della Morte”, miete vittime indistintamente. Ne ha visti, Peppino, di bambini presi dalla Lupa. L’ultimo della lista è stato Tanino per colpa di quel piede.
I bambini "rapiti" non facevano una brutta fine, o quantomeno non era cattivo l’intento. Venivano prelevati da un presente senza futuro ed affidati ad istituti religiosi, orfanotrofi, per essere rieducati.
Alcuni a Palermo, alcuni a San Martino delle Scale, qualcuno a Monreale. Nessuno ha mai saputo chi fosse alla guida della Lupa, se fossero autorizzati, ingaggiati da qualcuno, o se si trattasse di un gruppo di autonomi benefattori dai modi un po’ troppo rudi.
Quello che è certo è che quando da un vicolo spuntava il muso affamato delle Lupa bisognava lasciare tutto e scappare. Difficile stabilire se gli orfani di Palermo estirpati dalle loro borgate ebbero poi davvero un’esistenza migliore.
Sbiadito dal tempo quello della Lupa rimane oggi una memoria che vive forse nei ricordi di qualche superstite, come un brutto sogno. Le testimonianze sono molteplici, tutte tragiche. Alcuni, questo mistero lo collocano al termine del secondo conflitto mondiale, altri invece sostengono che fosse una prassi operata in pieno regime fascista per "pulire" le strade.
Per altri ancora poteva trattarsi, invece, di un gruppo di nostalgici del regime ormai decaduto, e che continuava ad operare secondo credo e a suo modo.
Nei ricordi dei più stagionati palermitani la Lupa continua a sfrecciare per le strade di quella parte di città che il nostrano Padre Messina aveva definito "l’Africa di Palermo".
Di scritto, poi, non è rimasto nulla, niente, nessuna traccia, come riescono solo ai fantasmi. Forse, dice chi oggi sente parlarne, era solo uno stratagemma che usavano i genitori per spaventare i figli e non farli allontanare dal quartiere.
Non lo sappiamo davvero e forse non lo sapremo mai. «Peri uno, peri rui, peri tri, peri quattru, peri cinqu, peri sei, peri setti, peri otto, tappete, tippiti e un viscuottu!».
L’ultima sillaba cade ancora una volta nell’ultimo piede di Tanino. Peppino non glielo conta, passa ancora al prossimo. Il rombo del motore non lascia spazio a dubbi, è la Lupa.
Si danno tutti alla fuga ma lui resta lì, impietrito, a cercare il modo di aiutare l’amico forzatamente seduto sul muretto. Forse Peppino nello specifico non è esistito, come neanche Tanino, ma di Peppino e Tanino ce ne sono stati tanti. Si guardano e sanno che forse è l’ultima volta che si rivedranno.
C’è spazio solo per l’ultimo istante, l’ultimo saluto: «Curri! Curri, Peppì!».
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