STORIE
Cresce tra le sarte, studia fuori ma torna in Sicilia: "Voglio restare qui per fare moda"
La stilista è tornata in Sicilia per lanciare il suo progetto slow fashion: capi di abbigliamento realizzati in modo sostenibile e attraverso la pratica artigianale
La stilista Cristina Falsone
La ragazza prende una giacca a rettangoli illustrati e prodotta con materiali di riciclo, un ragazzo la indossa percorrendo qualche metro avanti e indietro. Poco dopo un’amica diventa modella, viene sepolta sotto un cappotto, una sciarpa e un berretto bianchi; qualcuno sposta una lampada, qualcun altro comincia a scattare.
Nel gioco, tra la passerella e il set fotografico improvvisato, Cristina racconta di sé e delle sue creazioni. La stilista, 29 anni, originaria di Canicattì, provincia di Agrigento, ha studiato presso l’Accademia di belle arti di Palermo, l’Università Iuav di Venezia e un master a Bologna; poi stage a Gorizia, Torino e di nuovo nel capoluogo emiliano-romagnolo.
Il suo nome è apparso sulle pagine di Vogue Italia, in occasione di un evento di Fashion Revolution a Milano, dove era ospite, e su Repubblica, a proposito della mostra digitale ARTivism, dove esponeva una sua creazione.
Cristina è cresciuta nel mondo della sartoria: «Mia madre e le mie zie materne sono sarte e lo era anche mia nonna» continua «Conservo un ricordo di me alla finestra, mentre guardo mia madre all’opera, circondata dalle sue aiutanti, tutte donne».
Immagini come questa l’hanno accolta al suo ritorno nell’isola, nei luoghi che hanno ispirato la sua attività, mentre i ricordi stessi diventano strumenti a disposizione dell’artigiano: «Rammendare vuol dire riattivare un oggetto, riattivare un ricordo». Il sapere di una volta viene reinterpretato. «Allora tutte le donne dovevano saper cucire. Oggi è una scelta». La pratica artigianale, secondo Cristina, è diventata la via per il fai da te.
E il fai da te, a sua volta, è diventato una forma di liberazione; liberazione dai modelli di produzione capitalistica, dalla globalizzazione che abbassa i costi sulla pelle degli operai, dalla delocalizzazione presso paesi senza diritto del lavoro, liberazione dalla concentrazione della ricchezza e del know how.
Cristina, per questo, ha aderito a Fashion Revolution, movimento fondato da Carry Somers e Orsola De Castro dopo la strage di Rana Plaza, quando il 24 aprile 2013, in Bangladesh, un edificio di otto piani, nel suo crollo, seppellì 1129 persone e causò 2500 feriti (fonte: Internazionale).
Il proprietario del palazzo, arrestato durante la fuga dal paese, venne accusato di omicidio colposo e di aver ignorato le segnalazioni sulla pericolosità dell’immobile, e le stesse accuse colpirono i proprietari delle sette fabbriche tessili coinvolte e gli ispettori della sicurezza.
A Rana Plaza lavoravano almeno 5000 persone, soprattutto donne, per affermati marchi occidentali, anche italiani. Fashion Revolution, dalla sua fondazione, lotta perché l’industria internazionale del settore diventi equa, trasparente, solidale e perché il suo potere economico non sia concentrato in pochissime mani.
Anche Trama Plaza persegue obiettivi simili: la no profit milanese, nata due anni fa per iniziativa di Erica Brunetti e Marta Griso, pianifica ogni mese eventi di fashion sostenibile in presenza o da remoto. Cristina stessa collabora a questa agenda. Entrambe le organizzazioni, poi, promuovono il recupero di materiali per la realizzazione di nuovi prodotti. "Parasuli" segue la stessa politica.
È nato da «Brandelli», il progetto di laurea di Cristina, che consisteva nella ricerca di capi di maglieria presso i mercati di Torino, da destinare al riuso, attraverso il riassemblaggio all’uncinetto o la tecnica del rimaglio.
Ma l’idea corrente contiene qualcos’altro. L’autrice desidera mantenere il segreto sui materiali utilizzati per i suoi capi; anticipa, tuttavia, di aver avviato una collaborazione con il team spiagge pulite, associazione dell’agrigentino che libera e difende le coste dai rifiuti.
Queste è la sfida di Cristina, l’intreccio di memoria artigianale, lotta agli sprechi e proposta alternativa alla globalizzazione. Per ricordare che, con le parole di Fashion Revolution, «siamo ciò che vestiamo».
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