ITINERARI E LUOGHI
Come in Spagna ma in Sicilia: un sentiero (riscoperto) ti svela un ponte straordinario
Un percorso storico e naturalistico riaperto grazie a un gruppo di abitanti che hanno recuperato un'antica via di collegamento che conduce in luoghi mozzafiato
Un tratto del Sentiero Bettaci (foto dalla pagina Facebook "Sentiero Bettaci")
Venerdì 30 agosto insieme a D’Andrea Pasquale di “Camminare i Peloritani” abbiamo visitato Pezzolo, borgo collinare di Messina Sud a 320 s.m. per partecipare all’inaugurazione del sentiero Bettaci, recentemente riscoperto e restaurato da un gruppo di giovani volontari locali, con l’obiettivo di recuperare e valorizzare un’antica via di collegamento tra il villaggio di Pezzolo e le campagne della contrada Bettaci.
Arrivati in paese siamo andati nel piazzale della Chiesa S. Nicola di Bari dell’800 d.c., quivi oltre ai giovani volontari siamo stati accolti da una guida d’eccezione il professore (in pensione) Gaetano Cirasella. Questi ha cominciato a illustrare i pregi artistici del paese fra cui ben 24 archi nobiliari in pietra sui portoni di antiche dimore.
Ci ha detto che il villaggio benché piccolo, in passato aveva ingenti produzioni agricole e varie attività di trasformazione a esse collegate come testimoniano i numerosi palmenti che ancora si rinvengono. A dire il vero anche adesso le sue campagne non sembrano abbandonate, ma abbiamo notato piantagioni di uliveti perfettamente curate.
Il sentiero presentava una scalinata in pietra bella pulita e si avvertiva che era stata restaurata di fresco. Era transennata da staccionate di bambù ancora bello lucente tenuto insieme con il fil di ferro. Vale a dire erano state impiegate risorse locali a costo zero o quasi.
Siamo discesi per circa un chilometro in mezzo agli agrumeti, una volta limoneti ma poi convertiti mediante innesto in aranceti immuni dal malsecco che aveva attaccato i primi. Siamo giunti in un vallone in cui oltre a delle piante lacustri, come estese piantagioni di canneti, abbiamo visto grandi massi con dei fori.
Il dotto professore ci ha spiegato che questi servivano per innestare la miccia dell’esplosivo che li avrebbe frantumati. Infatti questi frammenti di roccia calcarea (CacO3) venivano fatti cuocere in forni chiamati calcare che raggiungendo i 900 gradi di temperatura trasformavano dopo un giorno di cottura il carbonato di calcio in ossido di calcio (CaO) : calce viva.
Le stesse fornaci venivano utilizzate per cuocere i mattoni, infatti più in alto c’è una zona chiamata Casso dal greco Kassos (mantello) interamente argillosa. Per cui una volta alimentate le profonde fornaci con innumerevoli mazzi di frasche (più economiche del legno) del peso di 70-80 kg, si producevano anche i mattoni.
Tutto ciò per spiegarci com’era stato possibile concepire e realizzare un’opera ardita in un luogo diabolico perché soggetto a rovinose piene e inondazioni. Si vedeva più in alto un imponente e grandioso ponte a più campate, biancheggiava sovrastando la valle e collegava i due fianchi vallivi.
Era stupefacente come un’opera di tale slancio e arditezza - ragguardevole pure per una città - fosse stata realizzata in ambiente rurale. Essa era saldamente ancorata ai due contrafforti montuosi con mura molto spesse.
Questo ponte raggiunge un’altezza di 21 metri e ha un diametro di 10. Ne ho visto un altro simile prima di arrivare alla cittadina di Ronda in Andalusia. Realizzato nel 1900 serviva per portare l’acqua alla contrada Bettaci. L'opera non ha richiesto costi elevati perché tutto quello che occorreva, dalla calce alla sabbia e ai mattoni, è stato ricavato in loco e la manodopera era quasi gratis.
Pensando alle fatiche sfibranti a cui si sottoponevano i lavoratori che per lo più si alimentavano a pane e cipolla, il prof. ha ripetuto più volte : «Meno male che siamo nati dopo».
Qui scorre il torrente Calonerò questo nome deriva dal greco Kalos (bello) e Nerò (acqua). Bell’acqua perciò. Nelle vicinanze resistono ancora i ruderi di un mulino a ruota verticale e dei relativi congegni. Sotto la spinta dell’acqua impetuosa che si riversava dall’alto girava la ruota con le tante vasche agganciate che alternativamente si riempivano e si svuotavano.
Anche questo realizzato con materiali locali e diversi tipi di legname a seconda degli usi. Per fare un esempio le viti venivano realizzate con legno di sorbo molto resistente. Nonostante i flagelli che ci sono stati raccontati, il luogo ci è sembrato fresco ed accogliente.
Dopo tanta siccità è stato piacevole sentire lo scroscio delle acque. Abbiamo apprezzato un laghetto attraversato da un passatore (basso muro di pietra per permettere il passaggio). Esso in passato veniva utilizzato dalle massaie per fare il bucato. Adesso verdeggiava per le tante minuscole foglioline acquatiche che lo ricoprivano.
Mentre eravamo lì abbiamo visto volare una ghiandaia, un passeraceo lungo circa 20 cm , dalla sagoma robusta e con una bella striscia blu su un’ala. Si tratta di una specie protetta di cui dal 1975 è vietata la caccia. È questo un uccello utilissimo, in autunno accantona le ghiande per l’inverno nei nascondigli.
Poi o a causa di frane o perché se li dimentica questi semi danno origine a nuove piante. Pertanto è sbagliato rimboschire con dei pini, specie introdotte e non originaria delle nostre parti, meglio farlo con delle querce a costo zero con l’aiuto delle ghiandaie che adesso si stanno ripopolando.
A questo punto mi è stato chiaro perché il bosco della Ficuzza di Corleone vicino a Palermo di nuova piantagione è interamente costituito di querce.
Dopo siamo risaliti lungo la vallata per una comoda stradina cementata. Arrivati in alto, non abbiamo potuto non ammirare i tanti terrazzamenti delle colline prospicienti, fazzoletti di terra che si restringevano sempre più arrivando quasi fino alla cima dei rilievi. Per l’ordine e la precisione mi hanno fatto ricordare delle risaie indonesiane che ho visto in televisione.
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