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Ci chiamavano "mangiamaccheroni" (e non solo): l’amore antico dei siciliani per la pasta

Gli italiani nel mondo sono conosciuti così. In realtà i primi ad avere questo soprannome sono stati i napoletani, ma non scherziamo nemmeno noi dell'Isola

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 17 giugno 2024

Il momento della Pasta cu scannaturi (foto dal blog Tussituria)

Scriveva lo studioso delle tradizioni popolari Giuseppe Pitrè "Il desinare (pranzo) del nostro popolino è parchissimo (poverissimo): una minestra o in generale un piatto di pasta".

Era dunque la pasta elemento principe della dieta quotidiana degli abitanti dell’isola. Sembrerebbe che la produzione e il consumo di pasta di grano duro (semola) risalgano addirittura a un’epoca antecedente alla conquista islamica: lo storico della Sicilia antica Biagio Pace afferma che in epoca tardoromana-bizantina nella località di Trabia, zona ricca di acqua e di mulini, in prossimità di Termini Imerese (Palermo), si producevano fili di pasta tipo vermicelli, il cui nome era tria.

Il Geografo Al-Idrisi, nel suo atlante geografico redatto alla corte di Ruggero II, scriveva che la produzione dei fili di pasta (tria in greco bizantino, itriyah in arabo) era talmente abbondante che se ne riempivano intere imbarcazioni, dirette in Calabria.

Come veniva realizzata la pasta? Per secoli il procedimento rimase immutato: l’impasto veniva steso con il mattarello (lasagnaturi) e da una sfoglia sottile venivano ritagliate tante striscioline, messe ad essiccare su una canna, disposta in orizzontale su due trespoli. Col passare del tempo diventarono numerose le tipologie di pasta sulle tavole siciliane.
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Già nel XVI secolo si legge in Ingrassia (1575) oltre ai già citati tria: “vermicelli, taglierini, maccheroni”. Il maccarrone, come lo chiamavano i siciliani, era una sorta di pasta a forma di cannoncino.

A Palermo esiste anche la via dei pastai: all’inizio del mercato della Vucciria c’è la famosa Discesa dei Maccheronai, una strada che va da piazza San Domenico fino a piazza Caracciolo; qui un tempo avevano le loro botteghe gli artigiani che preparavano ed essiccavano la pasta.

Quando si faceva la pasta a mano, in casa, le famiglie più ricche utilizzavano grano duro di ottima qualità, mentre il popolino di accontentava della più economica "mistura" risultante dalla mescolanza di farina di grano mischiata - per risparmiare - alla farina di cereali diversi, di qualità più scarsa.

Dobbiamo fare un salto temporale di qualche secolo e arrivare all’Ottocento, per rintracciare un lungo elenco, stilato dal Pitrè, di tipologie di pasta in uso a Palermo. Per la minestra o per il brodo si consumavano: lingua di passaru, pastina simile a chicchi di riso appiattiti; pirticunedda (semini); spizieddu pastina quasi rotonda a chicchi piccolissimi; stidduzzi (stelline).

Per la pastasciutta c’era solo l’imbarazzo della scelta: oltre ai maccarroni vi erano i maccheroni napoletani e i maccaruni di zitu (grosso maccherone); i vermicelli filati (denominazione generica di paste lunghe, tonde e sottili).

I tagliarini o tagghiarini (lasagne strette, tagliolini) e le lasagne (specie di pasta spianata e larga, a nastro); i turciniateddi (elicoidali), gli attuppateddi, pasta non molto grossa, tagliata assai corta; u’ cannizzolu, maccherone grosso quanto un dito medio; u’ capiddu d’ancilu, pasta lunga, molto sottile.

E ancora i cavatuna, (campanella) pasta a grossi e larghi anelli; gli gnocculi, pasta fatta a mano e cavata che differisce dagli gnocchi di patate; gli sciabò o scibbò pappardelle e perfino gli anelletti (diffusi anche oggi).

Tra i nomi particolari e curiosi troviamo: Oricchi di judeu (orecchie di Giudeo, orecchiette), Jiritaledda (ditalini), Avemaria (lumachine piccole) e Pater Noster (lumachine grandi), ganghi di vecchia o mole di vecchia (denti di vecchia) pasta rotonda, ricurva e rigata. In che modo veniva cucinata la pasta?

Ovviamente veniva lessata in acqua bollente salata e condita a piacere, proprio come facciamo noi. Il piatto più semplice era la Pasta cu lu tumazzu o ‘ncaciata, pasta condita con sagime (strutto) oppure olio e ovviamente cacio.

Diffuso era anche l’utilizzo del sugo di pomi d’oro (scritto così, separatamente), il cui consumo a Palermo è attestato già ai primi dell’Ottocento, sia come condimento per la pasta asciutta che per la minestra, in tal caso il piatto veniva detto Pasta e cipudda, minestra di pasta cotta in una specie di brodo composto da cipolla e pomodoro o estratto (concentrato di pomodoro). La pasta con il pomi d’oro era spesso accompagnato dalle melanzane dette petronciane.

La Pasta cu l’agghia e l’ogghiu (aglio e olio) diversamente da quanto intendiamo noi oggi non era una pastasciutta, ma una minestra comunissima di pastina cotta e condita con aglio, olio, sale e pepe.

Un altro piatto molto conosciuto era la Pasta a la milanisa o cu l’anciovi: maccheroni conditi con salsa composta d’aglio, alici, olio, ecc. Quando vi si poneva sopra del pangrattato abbrustolito si chiamava pasta cu la mùddica.

C’era poi la Pasta cu li favi a minestra: le fave sgusciate erano cotte in acqua, nella quale, una volta ridotta in poltiglia (Maccu), si cuoceva della pasta. Allo stesso modo si potevano anche cuocere la minestra di fagiuoli, di lenticchie, di ceci, di broccoli e di sparacelli.

Uno dei piatti più amati della cucina palermitana era la Pasta cu li sardi: maccheroni cotti e colorati con zafferano, conditi con un trito di cipolla, acciughe e prezzemolo soffritti in olio extravergine d’oliva; finocchio selvatico, sarde fresche, passoline, mandorle abbrustolite, pignolo (pinoli). Questa salsa si versava e si mescolava ai maccheroni in un tegame di terracotta.

Molti aggiungevano per decorazione altre sarde a linguata (aperte in forma di sogliola) sopra la pasta, nel tegame stesso. Venivano consumati, ma con meno frequenza della pasta, all’incirca un paio di volte al mese, anche il farru (farro) fumento macinato, bollito e condito con olio, sale e pepe.

Il Cùscusu (cuscus) sorta di pasta di semola ridotta in minutissimi chicchi, che si mangiava nel brodo tipo semolino, il melinfanti un cuscusu più minuto e il Risu (riso) cotto e preparato in varie maniere, soprattutto con il latte.

Nella cucina aristocratica c’era una forte commistione di dolce e salato: si preparava il riso con latte, mandorle e zucchero; si friggeva la pasta condita con lo zucchero e si realizzava nei giorni di festa il famoso timbale, uno scrigno di pasta tipo briseè fatto con farina, sagime (strutto), zucchero: al suo interno vermicelli filati o maccheroni conditi in vari modi.

Non dimentichiamo che all’epoca il forno utilizzato era quello a legna e il procedimento di cottura prevedeva che la pasta del timbale fosse stesa più spessa sotto e più sottile sopra.

Le unità di misura utilizzate erano il rotolo (0,79kg) e l’oncia (26,44 g). Bisogna ricordare inoltre ai più giovani che fino agli anni sessanta del secolo scorso la pasta si acquistava sfusa nelle putie (botteghe alimentari), ossia non confezionata e si acquistava solo la quantità per il consumo quotidiano: un ottimo modo per evitare sia gli sprechi alimentari che il packaging usa e getta in plastica dei nostri supermercati che influisce molto sull’inquinamento ambientale.

Oggi la pasta è un prodotto industriale; spesso viene prodotta con grano non italiano e oltre al prodotto tradizionale di grano duro esistono molte varianti con farina integrale, con farina di riso, legumi, mais, grano saraceno, ecc: in ogni caso resta la vera e indiscussa regina della tavola, il piatto più cucinato e amato del 2023, anche dai turisti.
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