LE STORIE DI IERI
Qualcuno volò nel cielo del Viceré
Delle più straordinarie macchine volanti legate al nome del signore di Montgolfier anche a Palermo si era parlato a lungo nella prima metà del 1790. Specialmente nei salotti degli intellettuali ricchi che possedevano quei rudimenti che in città avevano permesso il breve volo di pallonetti pieni d’aria surriscaldata. Come la "mongolfiera" in miniatura che si era alzata dall’astraco di palazzo Pietraperzia. Avvenimento per niente da paragonare a quello che sui tetti della città vicereale del principe di Caramanico avrebbe avuto come protagonista un capitano dell’esercito napoletano. Tale Vincenzo Lunardi che al mestiere delle armi aveva preferito quello del trasvolatore a pagamento e che da tempo si librava nel cielo delle maggiori città europee a bordo d’una attrezzata navicella sorretta da un pallone mostruoso. Fatto di seta e di non meglio identificabile "vernice elastica", dalla circonferenza di ben 102 piedi e dal diametro di 22, tale e quale quello che sul prato della Villa Filippina aveva cominciato a gonfiarsi all’alba del 31 luglio del 1790. Da settimane qui non si parlava d’altro. E chi sapeva leggere aveva anche appreso che l’aria calda per gonfiare l’aerostato si sarebbe ottenuta facendo reagire la limatura di ferro col vetriolo e che il volo di Lunardi si sarebbe concluso nientemeno che sull’isola di Ustica. Ovvio quindi che una folla assetata d’emozioni - per una volta non connesse a un autodafè dell’abolita Inquisizione - si fosse radunata di prima mattina sul piano polveroso di Sant’Oliva.Trattenuta a stento, davanti al cancello della sontuosa dimora di frati, dal servizio d’ordine rinforzato dai temibili soldati della guardia del Viceré anch’egli felicemente presente.
Al Teatro del Sole, fra gli stessi Quattro Canti che almeno per una volta furono proprio la ribalta d’una inedita cerimonia di gioia collettiva. E dove, nel 1633, più alta del consueto sollevarono la forca per un’assai diversa protagonista delle nostre cronache. Teofania d’Adamo, intossicatrice impenitente che s’intestò il potente veleno del quale nel 1795 sarebbe morto, quasi certamente, un non più entusiasta don Francesco d’Aquino, principe di Caramanico e Viceré di Sicilia.
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