STORIE
Babbaluci "a sucari" e canottiera: il rito del Festino tra i quartieri popolari e i mercati storici
Non c'è Festino che non si onori consumando la "ghiottoneria cornuta" come l'ha definita Gaetano Basile, ovvero le piccole lumache di terra condite in vario modo
I tradizionali "babbaluci" con aglio e prezzemolo (foto di Pietro Romano)
E per far comprendere - a quei pochi che ancora non ne siano al corrente - quanto sia viscerale l’attaccamento al consumo di queste leccornie, che nutrono un rituale piuttosto che soddisfare lo stomaco per la verità, dobbiamo rievocare l’antico detto siciliano: "Babbaluci a sucari e fimmini a vasari nun ponnu mai saziari".
Esisterebbe anche la versione che sostituisce le "fimmini" con "ziti" ma il senso resta invariato.
Il proverbio rende benissimo quanto il piacere sia nel succhiare da ogni guscio di lumaca tutto il gusto del condimento che, nel tipico gesto, sintetizza il lento godimento che ogni palermitano trae da questo cibo che, in altre nazioni europee (pensiamo alle più sofisticate escargot francesi), per determinate specie, ha trovato il giusto altare di esaltazione tra i tavoli dei ristoranti di lusso.
Avviene così alla Kalsa, ad esempio, a Ballarò e anche al mercato del Capo che, in diversi angoli, offre "putiari" pronti a soddisfare la richiesta di queste esigenti lumachine.
La lavorazione per arrivare alla degustazione, infatti, è lunga e laboriosa, per questo vi consigliamo di consumarle nei "posti giusti" in città e non improvvisati.
Sembra affare da poco la loro preparazione ma in realtà, così come spesso accade per le ricette tradizionali del nostro territorio, ci sono diversi dettagli e parametri a cui prestare attenzione.
Insomma i babbaluci sono una cosa seria - al di là delle canzoni tradizionali (pensiamo a "viri chi dannu chi fannu i babbaluci…" ripresa in versione ska anche da Roy Paci) e dei riferimenti goliardici legati a questo piccolo invertebrato spesso associato al tradimento.
Tanto è importante il tema “babblauci” (detti anche vavaluci) che lo storico, giornalista, enogastronomo e scrittore Gaetano Basile gli ha dedicato un trattato, pubblicato in occasione di un convegno internazionale di elicicoltura tenutosi a Cherasco nel 2006.
Lui l'ha definita un "ghiottoneria cornuta" (detti “attuppatieddi” o “munacheddi” più facili da trovare nei periodi autunnali) ma il nome scientifico sarebbe Helix o Theba pisana, quella piccola e biancastra, raramente tendente al rosa, comune nelle provincie di Palermo e Trapani.
Tra le specie consumate dai palermitani, però, rientrano anche i babbaluci cilesti, cioè la Jantina communis, dalla conchiglia fragile e di color ceruleo e altre due specie marine, la Natica millepunctata e la Natica castanea.
Quella terrestre è la “vittima sacrificale” per festeggiare il Festino.
La specie, a parte, a suo modo, sarebbe quella dei così detti crastuna, più grossi e carnosi, dal colore bruno-verdastro e il cui nome scientifico è Helix vermiculata; detti anche settesordi o carrinu, barbaniu o muntuni.
Prima di giungere sul piatto - nelle due varianti principali di gusto che ora vi diremo - c’è da prestare particolare attenzione per la loro preparazione e, soprattutto, per la loro pulizia detta spurgatura.
Il babbalucio, infatti, si nutre di erbe che per l’animale sono innocue mentre potrebbero risultare tossiche per l’uomo, per questo la loro lavorazione comincia, almeno, tre giorni prima della messa in tavola.
La procedura è tuttavia semplice e ponderata: si mettono, infatti, a disposizione delle lumache mollica di pane o pangrattato, in modo che se ne nutrano rilasciando il resto. Altri le lasciano a digiuno per lo stesso tempo.
Una volta spurgate segue l’altro passaggio importante, perché i babbaluci devono avere le corna di fuori per essere servite.
E infatti vengono posti in una bacinella, con i bordi rigorosamente segnati dal sale così da evitare fughe improvvise, al sole; una volta usciti dal guscio vanno messi in pentola, in acqua fredda e sbollentai a fuoco lento (così da evitare che si ritraggano).
Le due varianti principali palermitane - perché le lumache si consumano in ogni angolo di Sicilia - sono quelle con aglio, olio, pepe e prezzemolo, quelle in bianco, e quelle rosse con il pomodoro a picchi pacchiu.
Per la prima, le lumache già sbollentate, si fanno soffriggere con abbondante olio d’oliva, spicchi d’aglio tritati finemente, una pioggia di prezzemolo tritato e pepe nero in abbondanza.
Nella seconda versione, invece, su prepara un sugo di pomodoro spellato e fatto in piccoli pezzi, che sarebbe la formula "picchi pacchiu", arricchito anche questo con abbondante aglio, sale e pepe. Una volta pronto il sugo si aggiungono le lumache e si fanno insaporire.
Solitamente per il Festino di Santa Rosalia si consumano per strada i babbaluci con aglio e prezzemolo, che vanno mangiati rigorosamente con le mani e con l’ausilio di uno stuzzicadenti (legato ad un’antica pratica bon ton che vedeva l’uso di un uncino d’argento, per evitare quel poco elegante risucchio alle donne) per estrarre le lumache che si sono rintanate nel guscio.
Per gli amanti della tradizione più pura e verace, invece, si procede con una tecnica di sicura riuscita e di maggiore soddisfazione del palato che spiega il detto popolare citato sopra “babbluci a sucari…”.
In sostanza, con i canini si procura un piccolo foro nel guscio della lumaca e dopo, con un risucchio deciso, si procede con l’estrazione della lumaca; al guscio vuoto, infine, quasi a benedirlo, secondo la più antica tradizione si dona un bacio post mortem. E dopo, per buona pace del galateo, si possono pure leccare le dita.
E per vivere a pieno l'esperienza dei babbaluci la tradizione consiglia anche un dress code, particolare e per molti indispensabile: la canottiera intima, bianca e a costine.
Gli stessi venditori, fateci caso, la indosseranno dietro i loro pentoloni pieni di babbaluci.
E Festino sia!
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