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Anche se è una ciofeca o acqua i puippo: le mille sfumature sicule di "tu pigghi u cafè"

Gli indiani d’America avevano il calumet della pace, noi abbiamo la caffettiera. Da noi, dietro alla frase "pigghiamune u cafè" c’è tutto un mondo: ve lo spieghiamo

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 11 dicembre 2024

La stagione comincia a cambiare, ho rispolverato felpe e giubbotti ed è giunto il momento di portare la Poderosa dal “dottore” di fiducia specializzato in vespologia per il consueto controllo invernale, post intenso uso nella bella stagione.

Mastro Nino, u rutturi, non si limita ad accogliere il mezzo, ma si prodiga in consigli, aneddoti e tampasiamenti vari che, con piacere lo ammetto, si tramutano in almeno una mezz’ora buona di intrattenimento che comincia sempre con la solita frase tu pigghi un cafè?

Che non è una domanda, ma un imperativo, un dato di fatto assodato, essendo lui attrezzato, in officina, di fornello, caffettiera e lanna di biscotti danesi, la stessa tonda e blu che da piccolini (io anche da grande) aprivamo speranzosi, trovando poi gli attrezzi da cucito di nonna o altri ammennicoli che creavano inevitabilmente profondi traumi infantili.

Questo per dire che così come da mastro Nino, come praticamente in tutta la Sicilia, il caffè non è solo una bevanda, ma quasi un’entità grigia che muove i fili dei rapporti umani, un momento che pretende i suoi tempi, un rito, un momento di socialità, convivialità, murmuriamento, un segno di rispetto verso l’interlocutore, una dimostrazione di affetto e piacere della sua compagnia, un elemento capace di appianare questioni e camurrie varie o consolidare nuove e vecchie amicizie.
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In Sicilia, dietro la frase "pigghiamune u cafè" c’è tutto un mondo. Gli indiani d’America avevano il calumet della pace, noiavutri aviemu a cafettiera.

Non esiste massara/o che non ti accolga in casa propria e automaticamente, senza neppure chiedere, inizi a preparare la moka o accenda la macchinetta del caffè (strumento molto meno poetico della caffettiera, ma più pratico a sbrigativo, soprattutto la mattina, al quale pure io ho ceduto).

Lo sanno bene i siculi che vivono al nord e tornano in terra natìa quando, salutando i parenti, si ritrovano a dover ingurgitare ca supicchiaria ettolitri di caffè e biscottini, che alla fine a gastrite ti mancia l’ossa affrontando i soliti riscuorsi i cafè, frase rappresentativa del momento di leggerezza che quella tazzina rovente racchiude dentro di sé.

Qualcosa che non conosce età, stagione o status sociale, u cafè è una nostrana livella.

Dell’utilizzo del primo, rudimentale, caffè ne abbiamo traccia fina dal dominio arabo nelle nostre terre, poiché era usanza ri tuicchi consumare una bevanda chiamata "qahwah" che indicava proprio il nome di un infuso che si otteneva dalla bacche di caffè chiamate invece “bunn”.

Nel tempo, data l’impossibilità per i musulmani di consumare alcol, questa bevanda prese a poco a poco il posto del vino durante gli incontri, sia di affari che di piacere, tra arabi e siciliani, al punto da venire chiamato "vino arabo".

Pare che il primissimo locale in cui sorseggiare caffè in un ambiente dedicato sia nato a Venezia nella fine del XVI secolo, ma si ha traccia di un’usanza araba che da noi trovò terreno fertile, quella di allestire delle tende in cui uomini si ritrovavano per fare convissazziuni ed esporre le loro idee sulla politica, il tutto giocando a scacchi e sorseggiando tazze di caffè con dolci al miele o canna da zucchero, proprio da loro portata.

Siccome del caffè non si butta niente, era usanza dei gestori di questi locali di non gettare le rimanenze dei residui della bollitura del caffè macinato, ma di riutilizzarlo per preparare una nuova bevanda di minor pregio chiamata "tuffo", che nel tempo cominciò ad indicare anche i residui stessi della prima preparazione, che dava la possibilità ai meno abbienti di godere pure loro di quella esperienza ad un costo decisamente più abbordabile.

Dato che il consumo del tuffo era prerogativa solo della classi sociali più basse, nel tempo, magari ingiustamente, il termine divenne sinonimo di persona di basso lignaggio, volgare, fino ad arrivare ad identificarlo con qualcuno di spregevole, inutile, ignobile, un malaminnita ca patiente, ed ancora oggi utilizziamo questo termine evoluto in "rituffo" (cioè lo scarto dello scarto) per identificare questo genere di persone, a tipo “si un rituffo ri cristiani” (perché a quanto pare, ai tempi degli arabi, i poveracci che consumavano il tuffo erano per lo più cristiani).

La cultura del caffè è così divenuta parte integrante della nostra isolana società, al punto che vi è una leggenda sulla nascita delle bevanda, la cui paternità è contesa con l’Etiopia.

Sembrerebbe che anticamente, in un villaggio vicino l’antica Zancle (Messina) vivesse un pastore di nome Demetrico (Kali nella versione Etiope) il quale portava le sue pecore a pascolare nei monti lì vicino.

Un giorno vide gli animali particolarmente eccitati ed irrequieti, uno strano comportamento per delle pecore, e si avvide che le pecore cominciavano a satariare quando decidevano di farsi un aperitivo con delle bacche rosse che crescevano in uno strano albero.

Quel fattone di Demetrico allora, dopo aver provato su di sé gli effetti "stupefacenti" di quelle bacche, e concluso che erano commestibili, ne raccolse un bel carico e le portò ai saggi (dei sacerdoti nella versione Etiope) del suo paesello, non si sa se per sete di conoscenza o semplicemente perché gli stavano sui cabbasisi e voleva drogarli per tentare un colpo di stato paesano.

Sta di fatto che i "saggi" non lo presero molto sul serio e, credendo che fossero dei semplici semi di pungitopo, cominciarono a macinarli per poi preparare una mistura lenitiva.

Ma appena triturati e messi a cuocere si accorsero subito che in effetti l’odore era decisamente molto più piacevole della tipica pianta dalla foglia spinosa e così s’avvidero che, mischino, Demetrico aveva ragione e li usarono per preparare allora una bevanda eccitante e corrobborante, di buon sapore, capace di tenere svegli soldati, sacerdoti e lavoratori durante le attività notturne.

A Demetrico, tuttavia, gli dettero una boffa nel cozzo accompagnato da un "bravo cucì" e lo rispedirono a pascolare le pecore. Forse è perché in quella zona già si respirava l’aria del preistorico caffè che proprio a Messina nacque la prima torrefazione siciliana.

Dopo un periodo da ambulante in cui preparava il caffè per i passanti con un banchetto, nel 1870 Domenico Barbera fondò a piazza Cairoli, a Messina, la torrefazione Barbera.

Purtroppo il disastroso terremoto del 1908 che colpì la città portò alla morte Domenico, ma ci pensò il figlio Antonio a rimettere in piedi l’attività e, nonostante le difficoltà delle due guerre e del Fascismo in mezzo, riuscì a farne una solida realtà, che successivamente l’erede Vittorio portò alla ribalta internazionale.

Durante il Fascismo, data la folle e assurda politica della nazionalizzazione, era impossibile trovare del caffè se non al mercato ed a prezzi altissimi.

Per questo motivo i siciliani si ingegnarono e usarono le ghiande tostate e macinate per preparare una bevanda simile al caffè, ma dal sapore amaro, che prese il nome di ciofeca.

Nel tempo tale nome divenne sinonimo di qualcosa di fatto male, di una cattiva copia dell’originale, prendendo piede nel resto dello stivale italiano.

Nel frattempo noi per identificare un caffè fatto male abbiamo coniato la frase "pari acqua i puippo" facendo un triste paragone con l’acqua scurita dalla bollitura dell’octopoide usato nella nostra cucina. Ma questi, si sa, su riscuorsi i cafè!
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