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"Acchiana u patri cu tutti i so figghi": così un uomo fu simbolo di speranza per Palermo

Stava girato di spalle guardando la chiesa di Santa Teresa alla Kalsa perché da solo, senza gli amici al bar, voleva cambiare il mondo: ecco la sua storia

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 24 maggio 2020

Il porticciolo di Sant'Erasmo a Palermo (foto Pietro Piraino)

C'era il sole caldo che bruciava su Porta dei Greci e c'era pure Giovanni che, mentre tutti gli altri bambini giocavano ad "acchiana u patri cu tutti i so figghi", stava girato di spalle guardando la chiesa di Santa Teresa alla Kalsa perché da solo, senza gli amici al bar, voleva cambiare il mondo.

Giovannuzzo Messina nasce a Palermo il 31 marzo nel 1871. Giorno importante quest'ultimo di marzo perché fra l'altro da i natali a Johann Sebastian Bach, Cartesio, la grandissima attrice Tina Pica, Carlo Rubbia (Nobel per la fisica) e poi, forse perché tutte le ciambelle non escono col buco o forse perché il Signore quel giorno deve avere avuto una botta di scirocco, nasce pure Lele Mora.

Il papà, Totò Messina, faceva il contabile ma non doveva essere tanto bravo a contare perché fra maschi e femmine sua moglie Rosalia Lo Nigro aveva partorito sedici figli.

Ancora bambino mentre sta facendo una passeggiata alla Champagneria scopre l'oratorio di San Filippo Neri che per intenderci è quella chiesa che si trova accanto al museo Salinas: qui inizia i suoi studi religiosi e dieci giorni prima del suo venticinquesimo compleanno viene nominato sacerdote dentro la chiesa di San Gregorio al Capo.
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Pochi giorni dopo, visto che si era messo a camurria, l'arcivescovo per toglierselo davanti gli affida il difficile rione di Sant'Erasmo che ad occhio e croce, a scafazzo, doveva essere combinato come "Mery per sempre", tanto che padre Messina stesso gli darà il nome di "Africa di Palermo".

Con sudore e fatica, inquietando pure i santi e scroccando un colpo a destra e un colpo a sinistra, riesce a mettere di lato una piccola somma che gli permette riaprire la chiesa di Sant'Erasmo che ormai era ridotta a pruvulazzo e rave party.

A prima messa, però, accorgendosi che mentre sparte le ostie consacrate, dal potente pititto, i fedeli a picca gli prendevano a morsi la mano, si rende conto che il problema di Sant'Erasmo non è solo di materia spirituale ma soprattutto di povertà. Si ritira in solitudine a parlare col crocifisso, come don Camillo, perché di tutte le piaghe che c'erano nel mondo una su tutte non poteva sopportare: la fame dei bambini.

Si arma così di scecco e carretto, immagine che resterà scolpita nei cuori dei palermitani, e comincia a raccogliere offerte, cibo, stoffe e bambini buttati in mezzo la strada dalla mattina alla sera. "Uno scecco che porta un altro scecco": questo diceva di se stesso Giovanni che fino alla vecchiaia non si separerà mai del fedele destriero.

Si racconta che una volta, per questa storia di mettersi troppo a camurria con la gente, un venditore di stoffe che si sentiva "Don Coppola ‘nta carta" gli cafuddò una boffa perché oltraggiato dalla sua insistenza.

Padre Messina, sapendo che "cu zappa vivi l’acqua e cu futti vivi vino", gli rispose che lo schiaffo se lo prendeva ma si pigghiava pure le stoffe: così ragionava Giovanni, prima i picciriddi poi, semmai, la sua stessa dignità. Anno dopo anno la
fama di padre Messina cresceva e cresceva pure il bisogno dei bambini che, ormai, scappavano di notte dagli altri orfanotrofi, per raggiungerlo, proprio come Pinocchio e Lucignolo alla volta del Paese dei Balocchi.

Resosi conto che lo spazio non bastava prese in affitto il magazzino di una casa in riva al mare, che la gente chiamava "Astrachello", dai principi di Cutò. Ben presto però anche il magazzino si riempì e dovette affittare anche il resto dell’edificio che in men che non si dica fu pieno pure quello. Giovanni allora ebbe l’illuminazione e organizzò un casting per tutti i meglio picciottazzi di Sant’Erasmo con le braccia robuste ed esperti in costruzioni abusive.

Formata la squadra cominciò, stanza dopo stanza, piano dopo piano, ad ingrandire l’edificio che divenne enorme. Quando gli stessi muratori gli chiedevano se avesse i permessi, lui gli rispondeva che il Signore in sogno gli aveva rivelato che tanto avrebbero inventato una cosa che si chiama sanatoria e che questi problemi non ce ne sarebbero stati.

Non era raro, infatti, per i palermitani del tempo, passare di là e vedere lo stesso padre Messina dirigere i lavori e impastare cemento e quacina. Un giorno però il crocifisso lo richiamò con voce grave: «Giovanni! Giovanni! O sei tordone oppure lo fai. Vuol dire, mi fischiano le orecchie a me, che sono qua sopra, com’è che tu non senti niente? Ti stanno sparlando fino alla settima generazione».

Manco il tempo di avvisarlo che come una piaga d’Egitto s’abbatte su di lui il severo giudizio dell’illustre Ernesto Basile, che era una bravo picciotto ma aveva il difetto che non poteva vedere case abusive e facciate a "comegghié". Giovanni, allora, che questa cosa di Basile gli era dispiaciuta e dato fastidio assai, gli rispose per iscritto che se avesse avuto più piccioli glielo avrebbe fatto costruite a lui (n’to n’occhio!) e di sicuro ne avrebbe fatto un’opera d’arte.

Tuttavia Giovanni Messina aveva problemi molto più grossi di questo Ernesto Basile e il più grosso di tutti veniva proprio dal posto che portava il suo stesso nome. Nel 1908 s’abbatterà un terribile terremoto su Messina che lascerà migliaia di bambini orfani. Inutile dirlo che molti di loro troveranno un tetto e un piatto di minestra proprio all’interno della sua costruzione abusiva.

Passavano gli anni e Giovanni invecchiava, ma invecchiava bene perché i bimbi sperduti di questa "isola che non c’è nel cuore di Sant’Erasmo crescevano con la testa sulle spalle e un mestiere in mano. Arrivano pure le guerre e i bombardamenti su Palermo.

Padre Giovanni Messina quel giorno stava apprestandosi a mangiare insieme a tutti i bambini e le terziarie nel refettorio. Arrivò giusto a dire: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», che dal cielo cadde una bomba che spunnò il tetto, spunnò pure il pavimento del refettorio e si andò a conficcare nel piano di sotto, rimanendo per fortuna inesplosa.

A pericolo scampato il Signore, dal crocifisso, glielo disse: "per sta volta ti finiu buona”. Purtroppo, però, il 24 maggio del 1949, e non avrebbe potuto uscire di scena in maniera diversa, visto tutte le volte che s’era fatto il sangue acqua, padre Giovanni Messina muore per un colpo al cuore.

Sant’Erasmo, il quartiere non il santo, lo portò in spalla fino ai Cappuccini dove fu sepolto. Ci fossero stati vero i santi non ci è difficile pensare che se lo sarebbero caricati volentieri sulle loro sulle spalle. Ad oggi, ripenso che quando mi comportavo male mi dicevano: "Se non la smetti ti porto da padre Messina". Forse non sarebbe stato poi così farsi una briscola con padre Giovanni.
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