STORIA E TRADIZIONI
A Ballarò è "chiù longa ra pisciata ru zù Martino": perché (a Palermo) diciamo così
Nessuno ne ricorda il cognome, nessuno sa che mestiere facesse per campare, eppure Martino era famoso in tutto il quartiere. Vi raccontiamo questa storia
Ballarò a Palermo
Quando suonava la campanella della ricreazione, chissà perché, dovevamo scappare tutti per il bagno. Il professore di educazione fisica la chiamava "pisciata sincronizzata", quello di matematica "movimento coordinato di più elementi simili tra di loro", il signor Giordano, che faceva il bidello, "Burdello delle undici e mezza".
La verità è che il bagno era un centro culturale all'interno del quale si rimescolava l'èlite intellettuale della classe studentesca, ed in cui, complici l'inalazione dei fumi urici e le bevute di acqua non potabile del rubinetto, circolavano idee, pensieri, avanguardie.
Ci si inventava come si poteva. Il compagno Caruso, per esempio, ci aveva aperto una panineria sottobanco per tirare su qualche soldo, Maniscalco contrabbandava sigarette, Carollo rilasciava, sotto pagamento, concessioni edilizie all'interno del nuovo giardinetto che stavano ultimando accanto alla palestra.
Il lettore perdonerà la divagante premessa, ma era necessaria poiché Terrenova era fatto così, preferiva portarci sul posto, proprio come fece all'indomani.
Appuntamento alle 8.00 in punto al pulmino della scuola, magistralmente guidato da frate Attilio, insegnante di religione e pilota ipovedente. Bottiglietta d'acqua in dotazione dal tour operator e pranzo a sacco gentilmente offerto da Terranova, composto da semprefresco imbottito con salame ungherese (è arrivato il momento che la scienza faccia qualcosa sul perché del binomio "bambino-panino col salame ungherese). Destinazione: quartiere Albergheria, anche noto con il nome di Ballarò, sede dell'omonimo mercato.
L'itinerario prevedeva una breve gita tra i famosi banchi del pesce, quelli delle frutta, e uno spuntino dal panellaro; che, oltre per le panelle e le crocchè, era assai famoso per "l'arrascatura", ovvero polpette ricavate proprio dalla "raschiatura" dei recipienti delle pietanze sopraccitate (panelle e crocché) e poi, ovviamente, fritte nel misterioso olio.
Fu lì che Terranova ci invitò a chiudere gli occhi e tirare un respiro profondo, perché il mercato di Ballarò non era solo profumi e colori, ma anche musica, quella delle migliaia di voci che si sovrappongono, ma soprattutto quella delle urla dei mercanti, chiamate "abbanniate", e che tanto ricordavano le melodie provenienti dal Medioeriente, che aveno intriso la città sin dai tempi della dominazione araba.
Sarà stata l'atmosfera, sarà stato tutto quel cibo e quelle spezie, ad un certo punto, al compagno Carollo venne un attacco di nostalgia: pure suo zio faceva il droghiere a Ballarò.
Poi un giorno finì sul giornale, diventò famoso e nessuno lo vide più. Frate Attilio non ci vedeva, ma quando si trattava di beccare Carollo tra la folla era un cecchino: "lassa stare, tuo zio diventò famoso perché vendeva altre spezie".
A pancia piena la cultura si apprende meglio, così il professore ci portò a vedere la bellissima cupola della chiesa del Carmine Maggiore, che variopinta svettava su tutto il millenario mercato, la torre di San Nicolò all'Abergheria e il Palazzo Conte Federico, uno degli edifici più antichi della città, che però vedemmo solo da fuori perché il biglietto costava assai e dentro era pieno di cose che si potevano rompere.
Quando sembrava che la gita fosse giunta al termine, proprio tra una di quelle viuzze che sembrano tutte uguali, il professore Terranova si fermò sotto un balcone malo combinato e tornò sulla storia della pisciata: "ecco, questa era la casa ru zu Martino".
Ci raccontò che, tra la fine dell'800 e i primi anni del ‘900, pressappoco quando il signor Giordano aveva inziato a lavorare come bidello, in quell'abitazione viveva un cristianeddo simpatico e ben voluto da tutti, anche se considerato un po' stravagante.
Nessuno ne ricorda il cognome, nessuno sa che mestiere facesse (se lo faceva) per campare, eppure Martino (al quale era stato appioppato l'appellativo affettuoso di "zu", zio) era famoso in tutto il quartiere, e non solo, nientepopodimeno che per la sua pipì.
Tutto accadeva una sola notte l'anno, a ridosso della mezzanotte, proprio come per San Silvestro. Ogni 31 marzo, senza perderne nemmeno uno, preciso e puntale come una cambiale, u zu Martino usciva bella vista sul balcone, manco fosse stato Garibaldi che doveva parlare al popolo.
I palermitani lo sapevano benissimo, e ancor prima del grande evento accorrevano numerosi sotto il balcone ru zù Martino per accaparrarsi i posti migliori e godere dello spettacolo. Non appena scattava il secondo, con la folla in visibilio, Martino s'alzava la sottana, nisceva il signore da sotto il vestito e si esprimeva in una plateale pisciata dorata che percorreva a cascata quei pochi metri che separavano la ringhiera del balcone dalla strada.
In religioso silenzio tutti stavano ad ascoltare lo scroscìo poetico, allo stesso modo di come si ascolta lo scroscio di una fontana. Appena non c'era più niente da spremere scattava l'applauso fragoroso del pubblico che ancora una volta aveva potuto fregiarsi dell'onore di assistere allo spettacolo ru zù Martino.
Infine, poco prima di rientare e dare appuntamento all'anno successivo, Martino si lasciava andare a quell'unica frase che la gente gli aveva mai sentito pronuciare: "E anche per stu anno a marzo ci pisciammo addosso!".
Ecco come iniziava e finiva lo spettacolo del 31 marzo all'Albergheria. Sui retroscena nessuno ne seppe mai più di tanto, alcuni dicevano che fosse semplicemente pazzo, altri che odiasse a morte quel mese perché colpevole di avergli portato via per sempre sia la moglie che il figlio.
Quello su cui tutti, però, concordavano è che, quel fatidico giorno, Martino si lasciava andare a lunghe ed interminabili bevute, trattenendo la pipì, in modo da poter, a mezzanotte, espletare tutta la sua arte e offrire al suo affezionato pubblico uno spettacolo degno e duraturo.
Da quel fatto, almeno nelle zone a ridosso del quartiere Alberghieria, quando qualcosa andava troppo per le lunghe nacque quel modo di dire: "chiù longa ra pisciata ru zù Martino".
Quando finalmente tornammo al pulmino, nel fare marcia indietro, frate Attilio si andò a stipare contro la macchina dello stigghiolaro che, giustamente, ebbe da ridire: "ma chi è, orbo?" Attilio non porse certo l'altra guancia: "u immurutu 'menzu a via u so immu 'un su talia!". Questa però è un'altra storia...
Se ti è piaciuto questo articolo, continua a seguirci...
Iscriviti alla newsletter
|
GLI ARTICOLI PIÙ LETTI
-
STORIA E TRADIZIONI
Lo sfarzo a Palermo, poi il furto e la crisi: i gioielli perduti di Donna Franca Florio