AMAZING (DIS)GRACE
Noi seduti sulle casse di birra: un tuffo nel mondo perduto di chi ha lasciato Palermo
In quel labirinto di stradine e vicoli, fra le voci del quartiere in cui perdersi e poi ritrovarsi: Ballarò è il luogo dei ricordi per tanti ragazzi palermitani andati via
Casse di birra fuori da un locale a Ballarò (foto Pietro Piraino)
Biancheria stesa ad asciugare, da una finestra all'altra, su una corda o su due bastoni di scopa legati tra loro. Lenzuola, pigiami, intimo: penzolava di tutto sulle teste di noi passanti. Piccoli tasselli di vita sorretti da due balconi su cui riposava qualche pallone abbandonato e cercava di farsi spazio qualche piccola pianta, lì custodita in un vaso.
I balconi, ricordo, erano molto piccoli e stretti, come anche le finestre da cui scorrevano quelle corde di indumenti ancora profumati di ammorbidente.
Era tutto piccolo, e stretto. Anche i vicoli, le stradine senza marciapiedi in cui mi fermavo, spalle al muro, immobile, nell'attesa che l'auto che avevo sentito arrivare potesse avere lo spazio necessario per passare oltre.
E si proseguiva così: in quel labirinto di stradine, vicoli, tra porte lasciate socchiuse e da cui sentivo le voci del quartiere. Era ora di cena. Le famiglie si ritrovavano intorno alla tavola e si alzavano, senza freno alcuno, le sgridate contro i bambini che non volevano mangiare.
E mentre raccontavano la loro vita, posavano lo sguardo – fingendolo distratto – su di noi, noi che passavano sotto i loro pigiami e le loro lenzuola. Ci scrutavano e oggi immagino ci vedessero come degli intrusi nel loro mondo.
Giungevamo nel loro quartiere – Ballarò – in gruppo e subito dopo le lezioni del pomeriggio, o dopo una giornata trascorsa sui libri.
Cercavamo un luogo di ritrovo - soprattutto economico per noi, studenti universitari - e a pochi passi da casa. Senza doverci spingere - a piedi - troppo lontano, troppo oltre.
E così ci addentravamo in quelle stradine passando tra le bancarelle del mercato storico, cariche di frutta e di verdura. Bancarelle che – con spessi teli in plastica – venivano sigillate al giungere della sera ed erano comunque pronte per l'indomani mattina.
Passavamo davanti ai negozietti nigeriani, aperti anche sul tardi e dai quali uscivano donne con i capelli raccolti in tante piccole trecce nere. E poi ancora, davanti altre piccole botteghe, fino a giungere nella strada dove i pub vendevano bevande a prezzi stracciati.
C'erano tavoli e panche in legno, a destra della strada della movida. Tavoli e sedie che non bastavano per tutti. E allora si passava dall'altra parte della strada, invasa da cassette di birra posizionate in verticale e su cui sedevamo, su cui poggiavamo i nostri bicchieri di plastica come fossero piccoli tavoli.
Passavano motorini con giovani senza casco, pattuglie delle forze dell'ordine, auto di residenti con canzoni neomelodiche a tutto volume. E passavano le ore, in quell'angolo di un quartiere che non visito ormai da tanto tempo - ormai anni. Come sarà adesso la vita notturna lì? Ci sono ancora quelle cassette di birra? E i panni stesi ad asciugare con corde o bastoni? Gli studenti universitari vanno ancora lì, dopo le lezioni?
Non lo so. Magari me lo potrai dire tu che stai leggendo questo post. Io posso solo sapere che li, a Ballarò, non ci siamo più noi, oggi sparsi tra altre città d'Italia o all'estero. Non ci siamo più noi, che lì abbiamo passato i nostri anni dell'università, le nostre serate spensierate.
Ma lì ci sono i nostri ricordi. Sono custoditi in quei vicoli stretti, sotto quei balconi carichi di pigiami e lenzuola. Ricordi che – mi rendo conto – diventano sempre un po' più sbiaditi.
E chissà se ri - sedendomi su una di quelle cassette di birra li rivedrei, quei momenti passati e vissuti più di dieci anni fa.
A dieci anni di distanza, certo, sarebbe una persona diversa a sedere su quelle cassette di birra. Ma non sarebbe diverso, forse, quel piccolo mondo chiamato Ballarò.
I balconi, ricordo, erano molto piccoli e stretti, come anche le finestre da cui scorrevano quelle corde di indumenti ancora profumati di ammorbidente.
Era tutto piccolo, e stretto. Anche i vicoli, le stradine senza marciapiedi in cui mi fermavo, spalle al muro, immobile, nell'attesa che l'auto che avevo sentito arrivare potesse avere lo spazio necessario per passare oltre.
E si proseguiva così: in quel labirinto di stradine, vicoli, tra porte lasciate socchiuse e da cui sentivo le voci del quartiere. Era ora di cena. Le famiglie si ritrovavano intorno alla tavola e si alzavano, senza freno alcuno, le sgridate contro i bambini che non volevano mangiare.
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Si sentivano fino in strada le voci dei conduttori di popolari programmi tv, il volume delle televisori era sempre tenuto molto alto. E poi ancora voci concitate di liti, ma anche chiacchiere tra vicine che si affacciavano da un balcone all'altro per aggiornarsi sulle ultime vicende dei loro figli.E mentre raccontavano la loro vita, posavano lo sguardo – fingendolo distratto – su di noi, noi che passavano sotto i loro pigiami e le loro lenzuola. Ci scrutavano e oggi immagino ci vedessero come degli intrusi nel loro mondo.
Giungevamo nel loro quartiere – Ballarò – in gruppo e subito dopo le lezioni del pomeriggio, o dopo una giornata trascorsa sui libri.
Cercavamo un luogo di ritrovo - soprattutto economico per noi, studenti universitari - e a pochi passi da casa. Senza doverci spingere - a piedi - troppo lontano, troppo oltre.
E così ci addentravamo in quelle stradine passando tra le bancarelle del mercato storico, cariche di frutta e di verdura. Bancarelle che – con spessi teli in plastica – venivano sigillate al giungere della sera ed erano comunque pronte per l'indomani mattina.
Passavamo davanti ai negozietti nigeriani, aperti anche sul tardi e dai quali uscivano donne con i capelli raccolti in tante piccole trecce nere. E poi ancora, davanti altre piccole botteghe, fino a giungere nella strada dove i pub vendevano bevande a prezzi stracciati.
C'erano tavoli e panche in legno, a destra della strada della movida. Tavoli e sedie che non bastavano per tutti. E allora si passava dall'altra parte della strada, invasa da cassette di birra posizionate in verticale e su cui sedevamo, su cui poggiavamo i nostri bicchieri di plastica come fossero piccoli tavoli.
Passavano motorini con giovani senza casco, pattuglie delle forze dell'ordine, auto di residenti con canzoni neomelodiche a tutto volume. E passavano le ore, in quell'angolo di un quartiere che non visito ormai da tanto tempo - ormai anni. Come sarà adesso la vita notturna lì? Ci sono ancora quelle cassette di birra? E i panni stesi ad asciugare con corde o bastoni? Gli studenti universitari vanno ancora lì, dopo le lezioni?
Non lo so. Magari me lo potrai dire tu che stai leggendo questo post. Io posso solo sapere che li, a Ballarò, non ci siamo più noi, oggi sparsi tra altre città d'Italia o all'estero. Non ci siamo più noi, che lì abbiamo passato i nostri anni dell'università, le nostre serate spensierate.
Ma lì ci sono i nostri ricordi. Sono custoditi in quei vicoli stretti, sotto quei balconi carichi di pigiami e lenzuola. Ricordi che – mi rendo conto – diventano sempre un po' più sbiaditi.
E chissà se ri - sedendomi su una di quelle cassette di birra li rivedrei, quei momenti passati e vissuti più di dieci anni fa.
A dieci anni di distanza, certo, sarebbe una persona diversa a sedere su quelle cassette di birra. Ma non sarebbe diverso, forse, quel piccolo mondo chiamato Ballarò.
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