AMAZING (DIS)GRACE
Il mare di Cefalù tra ricordi e ciottoli da conservare: le tradizioni da tramandare
Arriva l'estate e con essa il mare, il sole, le spiagge. C'è anche chi, da anni, frequenta sempre la stessa e si ritrova con la famiglia dopo un anno di lavoro
Uno scorcio di Cefalù
Ognuno ha ricordi confusi di quei momenti sereni d’infanzia sparsi in diverse spiagge in cui ha trascorso le estati. Ma c’è una spiaggia che ciascuno di noi ricorda come quella più bella, quella più accogliente, quella che ci ha insegnato a nuotare, quella che ci ha fatto scoprire veramente il mare.
Per me, è la spiaggia di Cefalù. Lì la mia famiglia trascorreva dai sette ai quindici giorni nel periodo estivo, affittando un appartamento nel centro storico a cui si accede dalle stradine antiche, in discesa, ricoperte di sassolini tondi, lisci e ordinati. Lì riposavamo, pranzavamo, ci riparavamo dalle ore di eccessivo caldo, per poi passare il resto della giornata in spiaggia.
Noi sedevamo in un posto isolato ma che, nel giro di poche ore, si sarebbe affollato come tutti gli altri angoli della spiaggia. Di quel periodo ricordo le mie estenuanti ricerche di conchiglie e di ciottoli (solo se con forme o colori particolari). Alla fine della nostra villeggiatura avevo riempito un numero indefinito di sacchetti che – non mi spiegavo come mai – in realtà non si riempivano mai del tutto. Soprattutto i sacchetti dei ciottoli. Non appena arrivavo nella nostra casa dell’entroterra siciliano, ne trovavo sempre meno. Solo più avanti negli anni compresi che non potevo riempire il cofano dell’auto con pietre, seppur piccole. Erano troppe. Così qualche sacchetto si smarriva, chissà come.
Di quel periodo ricordo anche i miei vestitini con ampie gonne, il cappello di paglietta che indossavo sempre e che non volevo togliere nemmeno per andare a dormire (e che mia madre fu costretta a far sparire proprio mentre dormivo perché ormai sporco, vecchio e da cambiare) e il nome del paese storpiato. Per me non era Cefalù: era Faluce. Al rientro dalla villeggiatura portavamo dei souvenir ai miei nonni materni. “Tieni – dicevo porgendo a mia nonna un posacenere – te lo abbiamo comprato a Faluce”.
Cercare di farmi pronunciare il nome della città in maniera corretta era come una lotta con i mulini a vento: non volevo saperne. Era Faluce quel posto magico in cui passavo le settimane più belle della mia estate, che aspettavo con ansia durante il mese di giugno e luglio, quando gli impegni scolastici si erano ridotti ma non erano scomparsi.
Perché continuavo a riempire pagine con consonanti, a fare copiati di brevi frasi, a leggere e rileggere brevi testi dei libri di antologia fin quando non riuscivo a padroneggiarli alla perfezione. Era questo l’allenamento costante che io e le mie sorelle seguivamo sotto l’occhio vigile di mia madre. E che, per qualche giorno, portavamo con noi a Faluce, prima di perderci tra sabbia e ciottoli, tra le onde che non sono mai riuscita a domare.
La paura, la poca frequentazione dell’acqua salata (ridotta a quindici giorni all’anno causa la sfortuna di essere nata lontana dal mare, seppure in un’isola stupenda del Mediterraneo) mi portavano in acqua sempre munita di ciambellone alla vita e braccioli alle braccia. Non entravo mai senza.
È quella la mia spiaggia di iniziazione al mare, la spiaggia in cui continuo ad andare nonostante siano passati diversi anni da quei giorni di spensieratezza infantile. Alcune cose restano immutabili del tempo: il libro in borsa (stavolta un romanzo e non un manuale di scuola), la casa nel piccolo e antico centro del paese, a ridosso del mare, la condivisione dell’appartamento con la mia famiglia.
Da due anni abbiamo una persona in più tra noi. Una bimba dai riccioli d’oro che le coronano la fronte, che fanno da cornice a un viso bianchissimo e a due fari azzurri. Con quegli occhi mi sorride, sussurrandomi “ia gazia” (zia grazia), mentre mi consegna il piccolo tesoro appena trovato in spiaggia.
Ho avuto la fortuna di vivere con lei subito dopo la sua nascita, ad appena tre mesi compiuti. Con il passare dei giorni, ho visto i suoi piedi posizionarsi uno davanti all’altro, mantenendo il corpo eretto e in equilibrio, in un appartamento di Milano. Ho visto quelle gambe correre per le stanze della sua casa, mentre lei rideva felice della sua appena conquistata autonomia e completa mobilità.
Ogni volta che notava una mollica di pane sul pavimento della cucina o un pezzetto di puzzle nella sua cameretta, si abbassava per prenderlo con le punte del suo indice e pollice e, sempre correndo, consegnava il tutto nelle mani di sua madre. Con la stessa delicatezza e attenzione adottate per il pavimento di casa, mia nipote ha iniziato a scovare dalla spiaggia conchiglie e sassolini.
Si è trovata all’improvviso, in un giorno di luglio, davanti un’infinita tavolozza azzurra e mossa, “il male”. Ai suoi piedi, centinaia di pietruzze e conchiglie. Ha iniziato la sua raccolta, custodita in sacchetti di plastica che la sera svuota sul letto della madre, contando “uno, cinque, otto, nove e dieci”: sono i tesori accumulati quel giorno.
E condivide con me, sulla spiaggia di Cefalù, le sue piccole conquiste. “Guaddaaa” mi dice, porgendomi ad una ad una le sue conchiglie. “Di chi sono?” chiedo, accumulandole sulle mie gambe. “Di Elisa” esclama lei con orgoglio e sorridendo con quei due suoi grandi fari azzurri.
Forse anche lei, tra alcuni anni, ricorderà quella spiaggia come il luogo del suo primo contatto con il mare. Lo stesso luogo in cui le sue zie e sua madre hanno costruito castelli di sabbia, in cui sua nonna accudiva le sue figlie come adesso accudisce lei, coprendole le gambe con creme per evitare scottature, porgendole secchielli rossi da riempire di conchiglie. Oggi come ieri.
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