STORIE
Voleva evangelizzare il Giappone: Sidoti, il martire palermitano che si travestì da samurai
La Chiesa ha recentemente avviato un processo di beatificazione per il martire. Questa è la sua straordinaria storia, una storia in cui il perseguimento della propria missione supera ogni ostacolo
Un'immagine del martire Givan Battista Sidoti tratta dal libro "L'ultimo missionario"
Nulla da togliere alle nostre avventure costellate di hashtag ed effetti speciali che nemmeno Spielberg, ma nel passato ci andavano giù pesante. Basti pensare a Giovanna d'Arco o ad Alessandro Magno. La cosa più sorprendente è che non c'erano le Instagram Stories a documentare le gesta di quei personaggi, eppure oggi li studiamo sui libri di storia.
Paragonati alle loro imprese, i nostri viaggi sembreranno tratti dal Fantabosco della Melevisione, con tanto di Tonio Cartonio a raccontarne il disagio. Ma torniamo al sacerdote palermitano.
Una storia che ha dell'incredibile quella di Giovanni Sidoti (o ''Sidotti'', come riportato in alcuni documenti) che nacque a Palermo nel 1667, verosimilmente da una famiglia nobile. Studiò filosofia e teologia presso il collegio gesuitico di Palermo e intorno al 1693 si trasferì a Roma. Durante gli anni romani, rivestì il ruolo di padrino di battesimo della clamorosa conversione di un rabbino, che si chiamava – indovina, indovinello – ''Mosè''.
La missione salpò il 4 luglio del 1702 da Civitavecchia su un vascello genovese e non fu esattamente quella che si potrebbe definire una ''crociera''.
Sidoti arrivò a Tenerife e rimase alle Canarie per oltre due mesi. Poi arrivò a Manila, nelle Filippine, dove rimase per quattro anni e ne approfittò per studiare la lingua e la cultura del Giappone, anche attraverso la presenza di giapponesi lì rifugiati. A Manila si fece notare per l’impegno pastorale, nella cura degli infermi e si occupò anche di educare al cristianesimo i bambini abbandonati.
Finalmente nel 1707 il progetto giapponese si fece concreto, ma il viaggio fu interrotto forzatamente sulle coste cinesi. Nel 1708, dopo circa due mesi di navigazione, Sidoti sbarcò durante la notte e clandestinamente a Yakushima. Il sacerdote palermitano adottò un travestimento impeccabile che nemmeno Arsenio Lupin e arrivò nella terra del Sol Levante vestito da samurai, con la spada, la rasatura, un breviario, due grammatiche giapponesi e un crocifisso.
Aveva con sé, inoltre, un piccolo dipinto (una copia della Madonna del dito di Caro Dolci), ritrovato nel 2014 nel luogo della sua morte e oggi conservato al Tokyo National Museum. Per Sidoti era importante rispettare la cultura del luogo. Quello che avvenne non si sa con certezza, ma molti riferirono che venne catturato per via dei suoi tratti somatici e della sua altezza - era troppo alto per confondersi tra i giapponesi -. Venne imprigionato a Nagasaki nel 1708 per essere interrogato da un interprete che parlava il latino.
Sempre vestito alla giapponese, ma con un crocifisso al collo e un rosario, rivelò la sua identità e disse di essere palermitano, evitando così una immediata condanna, perché l'ingresso in Giappone era vietato ai castigliani e ai portoghesi ma non ai siciliani.
Viva Palermo e Santa Rosalia, insomma. Venne trasferito a Edo (Tokyo), e interrogato direttamente dallo shogunato: Sidoti fu internato nel «Kirishitan Yashiki», residenza-prigione dei cristiani. Gli interrogatori erano svolti da Arai Hakuseki, uno dei saggi confuciani più importanti dell’epoca. I loro lunghi colloqui vertevano su vari temi, dall’astronomia alla geografia e tra i due si instaurò un rapporto di stima, avendo riconosciuto l'uno nell'altro grande valore intellettuale e morale. Hakuseki, dopo i colloqui, chiese che Sidoti venisse riportato in Europa, ma lo Shogun non accettò e lo lasciò prigioniero.
Il sacerdote inizialmente non fu condannato a morte e neppure torturato, come era avvenuto per i missionari nelle persecuzioni del ‘600. Veniva trattenuto agli arresti e trattato con ogni riguardo. Tuttavia nel marzo 1714 Don Sidoti morì dopo essere stato gettato in una fossa vicino a quelle di una coppia di sposi che aveva convertito durante la prigionia e che confessò il fatto.
La condanna a morte fu inevitabile: il sacerdote e i due discepoli furono calati in tre piccole buche, nutriti quotidianamente, ma costretti a vivere in condizioni inimmaginabili.
Sidoti morì entro pochi giorni, nel novembre del 1714, all'età di 47 anni. Trecento anni dopo, nel 2014, a Tokyo, nel luogo in cui era collocata la residenza-prigione dei cristiani, vennero ritrovati i corpi del sacerdote e dei due giapponesi uccisi con lui. La Chiesa, anche per iniziativa di Don Mario Torcivia, che ne ha curato la biografia, ha recentemente avviato un processo di beatificazione per il martire, morto per aver battezzato due persone.
Non so se d'ora in poi avremo il coraggio di utilizzare l'hashtag ''adventure'' sotto le nostre foto, mentre comodi sul treno andiamo a Vienna o con l'ascensore supersonico raggiungiamo la vetta della torre della televisione a Berlino, ma una cosa è certa: la storia del sacerdote palermitano, colto e intelligente, che divenne martire per difendere e diffondere con rispetto la sua fede e le sue idee, è da esempio per tutti, religiosi o meno, siciliani o giapponesi, amanti dei social o eremiti, e ci ricorda che bisogna avere qualcosa in cui credere e non arrendersi mai.
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