MISTERI E LEGGENDE
Una città sommersa e una forza che trascina giù: viaggio nei miti dell'Atlantide siciliana
Siamo a Capo Peloro, punta estrema nord-orientale della Sicilia: una lingua di terra che costituisce il punto d'ingresso dello Stretto di Messina, segnalato da un faro
In Sicilia ci sono i greci, e c’è la Sicilia, cioè un condizionamento ulteriore di leggende arcaiche e di mitologie ancestrali che il tempo della storia sociale ha evoluto in un ricco patrimonio di oralità diffusa. Siamo a Capo Peloro, punta estrema nord orientale della Sicilia, il cui territorio fa parte del comune di Messina, vicino ai laghi di Ganzirri.
È una lingua bassa e sabbiosa - in una Cariddi misteriosa che richiama uno dei più grandi romanzi che siano mai stati scritti, il difficilissimo “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo -, che costituisce il punto d'ingresso nord dello stretto di Messina, segnalato da un faro per la navigazione.
Il toponimo, riferito al luogo, compare nelle “Metamorfosi” di Ovidio, ne “La guerra del Peloponneso” di Tucidide e nella “Eneide” di Virgilio, rievocando magnificamente il conflitto fra i due mari che si urtano, e porta con sé il mito di chi lo abita: divinità guerriere, eroi eccezionali, creature gigantesche e mostri marini.
Tutti i miti dello Stretto di Messina hanno una connotazione equivalente al significato della parola, ma la loro origine è da fare risalire al gigante Peloro e alla ninfa Pelorias. Peloro era anche il pilota della nave di Annibale, il quale, ritenendosi ingannato in quanto proveniente da Occidente e viaggiando verso lo Stretto, non vide alcun passaggio, poiché le coste della Calabria e della Sicilia apparivano unite, e fece uccidere il suo pilota.
Poco dopo però si accorse che il passaggio in realtà esisteva, così come aveva assicurato, fino al momento della sua morte, Peloro. Così, per riparare al suo torto, Annibale gli intitolò il nome dell’estremo capo nord-orientale dell’isola, e una statua raffigurante Peloro si scorgeva sul mare servendo da segnale per i naviganti.
Quest’origine affascinante è stata però immediatamente messa in discussione in quanto trecento anni prima della venuta di Annibale in Sicilia era già diffuso e si praticava il culto della dea e ninfa Pelorias che abitava tra le paludi della zona, e, per questo, era chiamata anche Signora delle Paludi. Secondo il mito, Pelorias sarebbe stata anche una dea madre, dall’aspetto gigantesco, posta a difesa del territorio e sostenuta, nella sua impresa, dal guerriero Pheraimon, uno dei sette figli di Eolo.
Essa appariva sia come incarnazione del principio più inumano e selvaggio della natura che come una ninfa bella ed amabile, ma ciò che rende davvero importante la sua figura è la raffigurazione di essa nelle monete coniate nel periodo tra il 461 ed il 288 a. C., in cui la ninfa è rivolta verso sinistra, con i capelli raccolti sulla nuca e trattenuti da una ghirlanda di foglie di canna con il rosa a simboleggiare la zona paludosa nella quale essa abitava.
Insomma, Pelorias viveva in quella zona chiamata “Margi” che un tempo ospitava il “Terzo Lago di Ganzirri”, nota agli esploratori e ai naturalisti greci per la fama sinistra che si evince dalle antiche fonti: la leggenda racconta di come si perdessero gli arti al solo tocco della superficie delle acque e che una forza misteriosa ingoiasse tutto ciò che vi si immergeva, senza più restituirlo alla luce.
Nel corso dei secoli il lago si interrò, mutando a una palude dall’aria malsana, e del Mostro di Capo Peloro si perse ogni traccia finché, con il terremoto del 1783, i miasmi che esalavano dal profondo ripresero a diffondersi al punto che i Borboni, di fronte alla situazione divenuta insostenibile del pantano, bonificarono la zona che adesso raccoglie terreni e campi.
Eppure sembra che il mostro sia lì, non sconfitto, celato nei due laghi adiacenti, e ogni tanto appare avvelenando le acque e nutrendosi di zolfo come un demone.
A questa leggenda se ne aggiunge un'altra, ancora più affascinante, che racconta di una sorte di Atlantide siciliana, del tempio di un dio malvagio e di una leggendaria città scomparsa.
Il suo nome è Risa, città dalle bianche mura di pietra che un terremoto distrusse inghiottendola fra le acque. Sembra che quando il sole è caldo e il vento mite, e quando la superficie del lago è limpida, si possano ancora vedere brani di muro e resti di case nel profondo, e, secondo gli abitanti della zona, in alcune notti sarebbe possibile persino sentire i rintocchi della campana della chiesa di Risa, che avvertirebbe i pescatori dell’arrivo di una forte burrasca.
O forse è la stessa principessa Risa, che ha fondato la città, che a quel lugubre suono si fa compagnia nelle sue notti senza pace. E quasi per incanto la sagoma di quei ruderi appare alla vista e basta immergere una mano nell’acqua per sfiorare i tetti di quest’antichissima città, dimenticata dal tempo insieme alla sua antichissima civiltà, tra le pieghe dei secoli e negli abissi d’acqua di una Sicilia che non è mai uguale a se stessa anche tenendo segreto il candore delle sue pietre nei misteri profondi di una laguna salmastra.
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