STORIE
Un ricettario svela la sua storia dopo oltre 100 anni: Salvatore Ragusa, monsù al fronte
Il manuale, pubblicato dall’Università di Palermo, non è solo un elenco di ricette ma costituisce anche una preziosa fonte di informazioni sulla storia culturale siciliana
Il ricettario di Salvatore Ragusa
Una strada che in qualche modo segna il destino di Salvatore Ragusa che, nato nel 1891 nell'umile borgata, la percorre ogni giorno, giovanissimo apprendista cuoco nella villa ai Colli del principe Pietro Lanza di Scalea.
Una piccola storia che sarebbe rimasta sconosciuta come molte altre mai venute alla luce, se non fosse arrivato fino a noi un ricettario di cucina scritto di suo pugno dal nostro cuoco che di studi ne aveva pochi ma di estro e capacità moltissimi.
Il manuale, pubblicato dall’Università di Palermo, non è solo un elenco di ricette ma costituisce anche una preziosa fonte di informazioni sulla storia culturale del territorio siciliano e italiano dal punto di vista sociale, agricolo e alimentare in un difficile momento storico.
L’autore ha intitolato la sua raccolta di ricette “Il modo di mangiare bene", titolo che richiama quello di Pellegrino Artusi, il gastronomo bolognese autore del più classico tra i testi di cucina italiana: “La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene”.
Da apprendista a monsù, cioè capo cuoco al servizio della nobile e potente famiglia Lanza di Scalea, nel 1915, quando scoppia la Grande Guerra, si arruola come fante e, di stanza a Gorizia, viene assegnato alla III Armata, l'Invitta, con il ruolo di responsabile della mensa ufficiali.
Non un soldato–cuoco, come sottolinea Carlo Ottaviano nel suo saggio introduttivo al ricettario, ma un cuoco–soldato, che è cosa ben diversa perché la professionalità del Ragusa lo distingue da coloro che per necessità, durante la guerra, si improvvisano cuochi.
E infatti i suoi meriti vengono riconosciuti quando Sua Altezza Reale il Duca d'Aosta, cugino del re, gli conferisce l'incarico di controllo degli approvvigionamenti di tutte le mense ufficiali della V Divisione, dal momento che alimenti scadenti (o peggio scaduti) e scarsa igiene causavano spesso avvelenamenti e morti!
Ne scrive lo stesso Ragusa: “Per ordine di Sua Altezza Reale Duca d'Aosta Comandante la III Armata sul fronte tedesco. Mi impartiva ordine uffiziale di ispezionare tutte le mense ufficiali [della V Divisione] per evitare avvelenamenti riguardo alle stoviglie ed il confezionamento del mangiare. Per esserci stati circa 25 ufficiali avvelenati in una mensa di battaglione [1917].”
Il contesto bellico è dunque lo scenario tragico in cui il nostro conterraneo vive e lavora, lontano dalla Sicilia, all'altro capo d’Italia tra l'altopiano del Carso e il fiume Isonzo. Ingredienti e tecniche di elaborazione delle sue ricette sono lontane quindi da quelle dell’Artusi che operava in una società anteguerra e aveva una cultura alimentare anche geograficamente diversa.
Salvatore Ragusa conosce bene e apprezza la ricca biodiversità siciliana di cui si serve (nella misura in cui glielo consente la difficile situazione) nel rispetto della stagionalità, con il pensiero sempre rivolto alle tradizioni agricole familiari ma aperto anche alla sperimentazione, dimostrando perciò una modernità straordinaria rispetto a quel contesto.
Non chiudendosi nei confini della sua amata regione, infatti, trae spunti anche da stili alimentari diversi, consapevole dell'importanza della circolazione dei piatti come momento di incontro e di scambio tra culture culinarie.
“La Grande Guerra – scrive il prof. Antonino Giuffrida - ebbe un ruolo fondamentale per la costruzione di una identità nazionale che passa anche da un processo di osmosi e di confronto fra le realtà gastronomiche delle diverse cucine regionali: unità nella diversità”(1). E non solo.
Salvatore Ragusa va anche oltre i confini italiani. Nel suo ricettario troviamo infatti (nella sua ortografia imperfetta ma degna di rispetto) “Spaghetti alla spagnuola", “Vitella alla Russia", “Bistecchi all'Inghlese", “Pollo alla tedesca", “Patate alla francese" e persino “ Quadretti alla giapponese" accanto a “Polpettone alla siciliana” e “Cannelloni all'italiana": un sogno, forse, di pace ecumenica mentre infuriano le battaglie!
Qualche ricetta importata nel Regno delle due Sicilie dai Monsù francesi subisce (senza soffrirne!) modificazioni d'ispirazione siciliana, perché, come rileva il prof. Giuffrida, “la grammatica gastronomica” della nostra isola alla fine del Settecento risente dell'influenza “della cucina francese grazie al radicamento nelle famiglie nobiliari siciliane dei monsù, di cuochi francesi".
È il caso delle “Uova alla monacale" (ancora oggi tipiche sulla tavola pasquale del Meridione), nella cui ricetta ai tuorli di uova sode il Ragusa aggiunge ricotta e non bechamel. Occorre infine considerare che i piatti proposti dal ricettario del Ragusa sono caratterizzati da una varietà e abbondanza ovviamente destinate esclusivamente alla mensa ufficiali non a quella dei soldati semplici, i cui pasti erano di gran lunga meno sostanziosi!
Il cibo continua dunque a connotarsi, come in età borbonica, come uno dei principali indicatori sociali. Nulla è cambiato: si distinguono ancora due modelli nutrizionali, quello ricco e quello povero.
Ai ricchi alimenti “nobili" quali carni e dolci, ai subalterni prodotti della terra come verdure, ortaggi, cereali; una sorta di piramide alimentare elaborata dai ceti abbienti come simbolica rappresentazione del potere.
“Un mondo diviso in due" - nota in proposito il prof. Paolo Inglese - in cui la “totale mancanza di democrazia alimentare" suscita amare riflessioni sociali di perenne attualità.
Il sapere culinario, Ricette di un Monsù siciliano al fronte (1915 – 1919), a cura di Antonino Giuffrida e Paolo Inglese, Palermo University Press.
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