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Torcigliato, mafalda o pistolone: se mi dici che pane mangi (a Palermo) ti dirò chi sei

Quella del pane, per noi, è questione delicata assai. Non è solo un cibo ma una vera e propria filosofia. In Sicilia sono tutti "pezz'i pani", a cambiare però è la forma

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 5 agosto 2024

La mia psicoterapeuta mi ha detto che devo decidere di che pasta essere fatto. Beh, poteva andarmi peggio: conosco un sacco di gente a cui il dietologo ha tolto il pane e l’ha sostituito con la quinoa. Me li immagino già tutti in un girone dell’inferno dantesco a mangiare quinoa ca meusa per l’eternità. Ma vuoi mettere a vastedda o la mezza scaletta?

Quella del pane, a Palermo (e in genere in tutta la Sicilia), è questione troppo delicata assai. Un fattore più antropologico che culturale. Il panificio sta, infatti, alla palermitanitudine come le contrade stanno la Palio di Siena.

Non è questione di comodità e scelta, ma di assoluta appartenenza e fedeltà. Per questo motivo, il palermitano compra il pane due volte al giorno, a pranzo e a cena, perché deve essere tassativamente caldo, appena sfornato e fragrante.

Ricordo che un panificio della via Oreto aveva istallato un gruppo elettrogeno di emergenza fuori dal negozio: per non farselo “grattare” lo aveva fatto incassare dentro una gabbia di ferro con dei lucchetti.
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Per circa un decennio quella gabbia è stata la seduta personale dello zu’ Carmelo, un cristiano senza denti che credevamo essere il dio primordiale dei toscanini, perché a forza di stare su quella gabbia, anche d’estate, era diventato abbrustolito e croccante. Questo però era il prezzo da pagare per impadronirsi del primo pane delle prime sfornate.

Poi c’è la questione dei “cozzitelli”, ovvero delle estremità. Uno studio dell’università dell’Oaglio ha rivelato che il 75% dei divorzi, a Palermo, è causato dai mariti che tornano a casa senza i cozzitelli del pane.

Probabilmente, se la Bibbia fosse stata ambientata a Palermo, Gesù avrebbe spezzato il pane e avrebbe detto: “Picciotti, cu si futtìu i cozzitieddi?”. Non sarebbe certo una novità, in Sicilia il pane è filosofia e guerra.

È filosofia perché: “U Signuri dà u pani a cu nunn’havi i denti”, “Manciari pani scurdatu”, “Mancia pani a tradimentu”, “Pani duru e ricotta cavura”, “U pani travagghiatu è chiù duci”, “Pani duru e cuteddu ca nun tagghia”, Un pani sanu è megghiu di menzu” (vedi i cozzitelli), “Cu mangia pani, fa muddichi”, “L’omo nun campa di sulu pani”. È guerra perché, da che mondo è mondo, “se vai a Palermo non toccare u pani”, dato che le peggio rivolte sono nate proprio per questo.

Il discorso è che il prezzo del pane, già dal XVI secolo, saliva e scendeva da un giorno all’altro a tipo Bitcoin. I siciliani, da sempre dominati, un colpo facevano il pane come lo volevano gli arabi, un colpo a gusto degli angioini, un colpo secondo il palato degli spagnoli.

Quella che non cambiava mai era la muria di pane. Ogni volta che si presentava una carestia di grano, calci, pugni e sputazzate. Eh già, perché sin ai tempi la Sicilia sottostava ad una sorta di “Statuto Speciale”, per il quale il grano si poteva vendere a chicchessia, l’importante che ne stessero bene i ricchi signori.

Più grano si vendeva all’estero (che poi era sempre alla corona che ci dominava) più il prezzo del pane aumentava. Per evitare tutto ‘sto macello, il Comune s’inventò la “municipalizzazione del pane”, una misura secondo la quale il prezzo del pane non sarebbe variato a prescindere dalla quantità del grano.

Eh, ma tu vuoi mettere che in campagna elettorale prometti di togliere le accise e poi le togli veramente? La cosa ovviamente durò da Natale a Santo Stefano, e appena arrivarono i Borboni dissero subito: “che noia che barba, che barba che noia” (come Sandra Mondaini). Risultato: fankul alla municipalizzazione del pane.

Questo non placò la fame di pane dei palermitani, perché questa continuò nei secoli, fino al 19 ottobre 1944 con la famosa Strage del Pane (di cui ho già parlato).

E siccome che si è sempre combattuto con queste carestie, con le male amministrazioni, con le promesse, con le raccomandazioni, datosi che alla fine il pane è stato sempre “uno e trino” (nel senso che con un filoncino ci mangiamo in tre), ne abbiamo fatto una questione di fame artistica. Proprio così, se non ci siamo potuti sbizzarrire nella quantità, lo abbiamo fatto nella varietà. Ognuno a Palermo ha, Infatti, il suo pane prediletto.

Ognuno a Palermo “è un pezz’i pani”, tutti ci identifichiamo con uno specifico formato di questa bontà. Si potrebbe tranquillamente chiedere ad un palermitano per strada: «Mi scusassi, ma lei che pane è?».

A vastedda: morbida, rotonda, meglio se conzata con la milza, ed accessibile a tutti i tipi di dentiere (approvata dall’associazione italiana dentisti).

Mafalda: chi ama le curve, e anche la mortadella, non potrebbe mai farne a meno. Secondo una leggenda, i panettieri, costretti a lavorare la notte, le facevano riproponendo di nascosto le forme dell’amante. Secondo un’altra fu creata in onore della principessa Mafalda di Savoia.

Scaletta: Nessuno ha mai capito la differenza tra Mafalda e Scaletta. Magari qualche panettiere si è stoccato il collo dalle scale, scappando proprio dalla casa dell’amante, e l’ha voluto immortalare.

Pistolone: questo è il pane che porta a casa il marito e se lo mangia solo lui. Evidentemente ha sentito da qualche parte quella storia secondo cui “la macchina è il prolungamento della propria libidine, e, rendendosi conto che ha la stessa 500 da vent’anni, cerca di riscattarsi dal panettiere.

Parigino: un pistolone più piccolo e più raffinato, che magari è un peccato a mangiarselo. Bello che gli manca la parola. C’è chi afferma di averlo sentito cercare di fare conversazione: “comment tu t'appelles?”.

Toscanino: “tipo il parigino ma dicono abbia la “c” aspirata. Qualcuno se lo fuma.

Rosetta: secondo il Wwf è una razza protetta in via di estinzione. Non se ne vedono più.

Torcigliato: C’è chi, tradizionalista, preferisce il missionario e chi è per “’o famo strano”.

Pizziato: è ispido con le punte. È un parigino cu u gel ne’ i capiddi!

Semprefresco o sempre fresco: Quannu ti siddia comprare il pane due volte al giorno, e gli inventi sta minkianta tuo figlio, perché così se lo mangerà l’indomani a scuola, a ricreazione, col salame ungherese (è arrivato il momento che scienza ci dica qualcosa a proposito del perché del binomio “bambino-semprefresco col salame ungherese).

Bocconcino: un semprefresco più piccolo che ti danno come resto al posto delle chewingum.

Cornetto: Eh cuinnutu!

Di tipologie ce ne sono così tante, ancora di più, che si potrebbe chiedere: «E tu che pane sei?». Proprio così: tu che pane sei?

Ad esempio, di fronte a me c’è un’insalata: pomodoro, cipuddi russi e olive nere. Per quanto mi riguarda ho deciso di non badare alla forma e seguire quel passo della bibbia che fa: “Beato è colui ca s’abbagna u panuzzo nell’acquicedda del pomodoro, perché ascenderà al regno dei cieli”… Amen!
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