STORIA E TRADIZIONI
Siciliana e "maledetta": una vita di lutti, malanni e un amore proibito per Mariannina
Una vita triste e drammatica durante la quale sacrificò se stessa per ''obbedire'' alle regole della società. Solo l'amore per la poesia la salvò nei suoi ultimi anni di vita
Mariannina Coffa
Definita la ''Saffo siciliana'' o la ''Capinera di Noto'', data la vita tormentata a metà tra Madame Bovary e la suora di Verga, Mariannina nacque a Noto nel 1841 da Celestina Caruso e Salvatore Coffa, avvocato patriota.
La sua vita potrebbe tranquillamente ispirare un film drammatico, poiché sacrificò se stessa per ''obbedire'' alle regole della società, ma non tralasciò mai il suo amore per la poesia, la passione che la salvò nei suoi ultimi anni di vita, caratterizzati da infelicità e rimpianti.
Considerata fin da piccola un vero prodigio, la sua educazione venne affidata a un sacerdote letterato, Corrado Sbano, affinché vigilasse sulle sue letture, che dovevano essere ''religiose'': gli argomenti non dovevano uscire fuori dal perimetro del classicismo cattolico.
Il pessimismo di Leopardi, ad esempio, non era ben accetto, ma Mariannina a volte trasgrediva e leggeva autori considerati pericolosi come Shakespeare e Byron. Mariannina scriveva su argomenti prestabiliti e a volte improvvisava i versi, lasciando tutti sbalorditi.
Ascenso aveva proposto a Mariannina di fuggire, ma lei, forse ancora troppo giovane e ingenua, non accettò, sottomettendosi alla volontà dei genitori. La costrinsero, infatti, a sposare un facoltoso possidente di Ragusa, Giorgio Morana.
Quello fu l'inizio della fine, la capinera era ormai in prigione, proprio come la sfortunata suora di Verga. Costretta a vivere con un uomo che non amava, ad abbandonare Noto per trasferirsi a Ragusa, Mariannina si ritrovò a convivere con un suocero ignorante, che non accettava la sua vocazione per la poesia, ritenuta uno strumento di perdizione.
Colpita da continui malanni, afflitta dalla perdita di due figli e di alcuni tra i più cari amici e parenti, Mariannina conduceva una vita triste. La scrittura divenne, così, una fuga dalle miserie della realtà quotidiana.
La sua vita sfortunata la rende una figura quasi ''maledetta'' e, benché venga ricordata più per la sua vita drammatica che per la sua opera, è senza dubbio l'esempio di una donna, un'artista, che ha dovuto lottare contro gli ideali di una Sicilia ottocentesca e provinciale, contro una famiglia che valutava le persone in base al denaro.
Ci sono testimonianze di alcune lettere che Mariannina scambiò con Ascenso, in cui gli raccontava quanto fosse triste la sua vita e che il suocero non aveva insegnato alle figlie a leggere e scrivere, ''perché non fossero disoneste o cattive donne di casa''.
Una donna che scriveva era una minaccia. Nell'estate del '75 si manifestarono i primi sintomi di quel male (probabilmente un tumore), che aveva colpito l'infelice poetessa. Conobbe il medico Migneco, massone e seguace delle teorie del magnetismo e del mesmerismo e preferì affidarsi a delle cure omeopatiche, rifiutando un intervento chirurgico.
Abbandonato il tetto coniugale, si trasferì a Noto per essere seguita dal dottor Bonfanti, allievo di Migneco, suscitando pettegolezzi e dicerie. Negli ultimi anni, nutriva ormai un forte rancore contro i genitori e i parenti, che le avevano impedito di vivere liberamente la sua vita. Quando si trasferì a Noto, i familiari le voltarono le spalle, abbandonandola alla malattia.
Pur in contesti diversi e con un registro linguistico differente, Mariannina condivide con i contemporanei poeti maledetti francesi il disincanto, la morte precoce e il malessere suscitato dal dover vivere in una società borghese antica e ottusa. Come molti poètes maudits, che morirono in giovane età, Mariannina si spense a Noto il 6 gennaio del 1878, a soli 37 anni.
Lasciamo di seguito una lettera che Mariannina scrisse ad Ascenso, il 9 marzo 1870, più di dieci anni dopo il loro incontro.
«Avete mai pensato, Ascenso mio, a quel giorno in cui eravate in mia casa, quando il cielo divenne nero e i tuoni ci facevano paura? [...] Oh! Ma non è possibile aver dimenticato ciò che fa parte della vita.
Quelle ore della tempesta furono le più belle del nostro amore - perché mai, mai mi fu concesso dirvi una parola senza testimoni, ma mi fu concesso stringere la vostra mano e aprirvi l’anima mia. Ma quel giorno ebbi un istante di felicità, ed oggi l’ho scontata con perenni lagrime. Eravamo soli; voi avevate scritto un sonetto che cominciava Demone o spirto...
Volevate che facessi la risposta sulle stesse rime, e mi posi a scrivere. Eravate in piedi dietro la mia sedia, e posaste la mano sulla carta che avevo innanzi, e su quella mano appoggiai le mie labbra ardenti...O mio diletto - dopo dieci anni, io palpito come palpitavo in quell’ora, e parmi nulla esser mutato; quel cuscino che dovea servire pel vostro pianoforte, io lo conservo ancora: lo tolsi dal telaio, non volli mai terminarlo ed è per me una preziosa reliquia - i colori delle rose sono impalliditi come la mia vita... ma l'anima perché non muta?»
Lui rispose alla lettera, dicendole che non le avrebbe più permesso di scrutare nella sua anima, perché lei ormai era madre e aveva scelto un'altra vita. Lei lo supplicò di concederle un incontro: «Sono troppo - troppo infelice. Venite, per pietà, venite, e non ci vedremo mai più. Addio».
A quell'appuntamento Ascenso non si presentò mai.
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