STORIA E TRADIZIONI
Si pensa vivesse a Palermo, litigò con una strega: perché si dice "ti futtisti Don Cola"
“Ti futtisti Don Cola Carogna, Don Cola con tutte le corna, con tutte le scarpe, Don Cola cu tutta a sunata". Tante varianti di un'unica storia che adesso vi raccontiamo
Un dettaglio dell'opera di Fernando Botero "Pic nic"
Non a caso sono anche i tre argomenti più dibattuti dagli intellettuali di tutti tempi. Sul cibo Oscar Wilde diceva: “Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo”.
È evidente, e lo sappiamo, che l’autore di Dorian Gray ai primi del 900’ è stato a Palermo. Sempre Oscar Wilde diceva: “A tavola perdonerei tutti. Anche i miei parenti”.
Lo scrittore francese Guy De Maupassant invece se la pensava così: “soltanto gli idioti non sono bongustai”, mentre il connazionale Alexandre Dumas si limitava a dire: “anche quando si mangia tanto, non si mangia che una volta”… anche loro due sono stati a Palermo.
Al contrario, quando mia zia Agatina veniva posseduta tipo “L’Esorcista” dal verme taglierino, e a tavola dava soddisfazioni, mio zio Aspano che era un romantico esclamava: “ti rassi viestiri, no a manciari!”, ovvero che, facendo un’analisi costi-benefici, sarebbe stato più conveniente rifarle il guardaroba che portarla al ristorante.
A tal proposito arriviamo senza neanche farlo apposta al cuore del nostro discorso, nonché quel bellissimo modo di dire con cui si fa notare al mangiatore olimpionico che ha vinto la medaglia d’oro: “ti futtisti Don Cola cu tutta a mitra” (ti sei mangiato Don Cola con tutta la mitra).
Ora, anche di questo modo di dire ci sono una carrettata di varianti: “ti futtisti Don Cola Carogna, Don Cola con tutte le corna, con tutte le scarpe, Don Cola cu tutta a sunata", e così via.
A raccontarci l’origine di questo detto questa volta è nientepopodimeno che Giuseppe Pitrè nel suo "Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani".
Secondo la leggenda, Don Cola era un usuraio del quartiere ebraico di Palermo. Se fosse così, dobbiamo quindi farci il conto che siamo prima del 1492, cioè prima dell’Editto di espulsione degli ebrei dai domini spagnoli emanato dai lor signori Ferdinando e Isabella, meglio conosciuti come i reali cattolici.
Già, perché a Palermo, come in molte altre città siciliane c’era un fiorente quartiere ebraico, che di ebraico aveva solo la religione, dato che gli abitanti erano palermitani di terza, quarta generazione, se non di più (quindi chiù paliemmitani i mia).
Dietro i sovrani però c’era il frate domenicano Tommaso de Torquemada, loro confessore, ideatore dell’Inquisizione e segretario nazionale di Lega Spagna, che aveva una specie di fissazione con gli immigrati che rubavano il lavoro e stava tutti il giorno a dire: “prima i cattolici prima i cattolici! ruspe di qua ruspe di là!”.
Comunque, parentesi a parte, il nostro Don Cola campava a quel tempo con una coscia qua e una là, con l’unico interesse di prestare piccioli e riscuotere interessi.
Eh, ma tira la corda che prima o poi si spezza. Arriva il giorno che al suo cospetto si presenta con la richiesta di un prestito una strega. Streghe ce ne stavano assai a Palermo e di conseguenza il settore era saturo.
Vuoi per la crisi economica, vuoi per la mancanza di clienti perché l’inquisizione cominciava a prendere forma, la fattucchiera non riuscì a pagare il prestito e se ne andarono tutte le cambiali a cachì.
Come ogni usuraio che si rispetti, a quel punto Don Cola prese il regolamento del Monopoli e le ipotecò la casa senza se e senza ma.
Già le donne sono vendicative di per sé, metteteci che questa era pure una strega, niente fece? Gli lancio una maledizione: “per come si era pappato tutte cose, compresa casa sua, sarebbe stato condannato ad un appetito perpetuo, tipo fame chimica quando vedi tornare tuo figlio a casa con gli occhi rossi, pure lui affetto da maledizione.
Cola, invasato dal demonio della fame (un certo Ouar) cominciò a mangiare e pistiare tutto quello che gli capitava a tiro, comprese dispense di amici e parenti che, giustamente, dicendogli “va cunsuma a quacchi n’avutru”, cioè rovina a qualcun altro, lo mandarono a quel paese.
A quel punto, come nei migliori servizi di Barbara D’Urso, non sapendo come soddisfare il proprio bisogno, Cola mandò la moglie a prostituirsi con il solo intento di potere divorare le dispense degli amanti.
Completamente soggiogato dal demone Ouar e da pititto potente, Don Cola cominciò a chiedere in pegno ai suoi clienti non più soldi ma parti del corpo. D'altronde chi è che non ha un piede o una mano che gli avanza? Non fu cosa, tastata la carne Cola uscì completamente di senno e si cominciò a fare arrostitine dalla sera alla mattina sui tetti di Palermo gridando “Matteo Matteo”.
La situazione scappò talmente di mano, che non trovando niente in frigo, proprio come Crono padre di Zeus, decise di mangiare i propri figli. La storia stava quasi per volgere al tragico epilogo, quando forse un attacco di lucidità, forse un attacco d’acidità, Cola rinsavì e prima di macchiarsi del delitto si uccise pugnalandosi nel petto.
La vita di Cola finì lì, e pace ai becchini che se lo dovettero caricare per le scale.
Se vi state chiedendo cosa invece c’entra sta schifio di mitra, beh, sappiate che la mitra è un cappello liturgico leggermente pentagonale nato nel x secolo e adottato da molte confessioni cristiane.
Per intenderci quello lungo ancora usato dal Papa ma soprattutto dai vescovi. Da qui il modo di dire: già mangiarsi Don Cola è difficile, con tutta la mitra ce ne vuole.
Ps: la prossima volta che hai un parente invitato a casa raccontagli questa storia, ci risparmi tu e ci accansa in salute lui.
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