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Sergione, Bosco Grande e i punk anni '80: in un film la "sua" Palermo buia e dannata

Ripercorre le vicende del pioniere del tatuaggio in città, nel fantomatico quartiere che non esiste in nessuna mappa ma solo nei ricordi dei suoi abitanti storici

Elena Cicardo
Digital strategist
  • 4 dicembre 2024

Una scena dal film "Bosco Grande"

Alla fine degli anni Ottanta, Palermo era una città dannata. Buia, grigia, senza redenzione. Me lo dice Fabio Sgroi, fotografo palermitano che ancora non sapeva che cosa sarebbe diventato, che avrebbe lavorato con Letizia Battaglia e Franco Zecchin, che avrebbe collaborato con il quotidiano L’Ora.

A quei tempi, a diciannove anni, era il chitarrista degli MG e, per gioco, con la sua macchina fotografica aveva cominciato a fotografare gli amici che lo circondavano dentro la piccola scena punk di cui faceva parte.

Quando Giuseppe Schillaci, regista palermitano che da anni vive a Parigi, decide di raccontarla in un suo nuovo documentario è Fabio che chiama.

Era uscito il libro "Palermo 1984 – 1986, Early works" che raccoglieva alcune delle sue foto di quella Palermo underground e Schillaci era interessato a capire che cosa ne fosse rimasto della reazione di quei ragazzi a una città che viveva con le persiane chiuse e il coprifuoco, devastata dalla guerra di mafia.
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Voleva capire che fine avessero fatto quei punk, per scoprire che in realtà se n’erano andati via tutti, o quasi. «Sergio è rimasto sempre là, - gli dice Sgroi - è ancora là, ha cinquant’anni ed è sempre punk, solo che adesso pesa quasi 300 chili, fa il tatuatore, se vuoi ci andiamo». Del resto, ognuno annaspa a modo suo nel tentativo di salvarsi.

C’è chi lo fa andando via, lasciando dei vuoti, e chi rimanendo, occupando quanto più spazio possibile. Un po' come ne “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, la ribellione disperata di Sergio Spatola alla sua famiglia, alla cultura borghese e mafiosa, alla violenza, ai valori patriarcali, al familismo prende la forma dell’eccesso.

Sergio rimane, e diventa enorme. Il suo corpo diventa un manifesto. Il personale è sempre politico, e le battaglie che portiamo avanti passano spesso attraverso i nostri corpi.

Quello tatuato di Sergio, nella sua imponenza, rivendica fragilità, ostenta il suo non sottostare al ruolo che gli altri si aspettano da lui, la sua scelta di restare al margine.

Così nasce il film Bosco Grande. È a Bosco Grande che Sergione, pioniere del tatuaggio a Palermo, vive, in questo fantomatico quartiere che non è mai esistito in nessuna mappa della città, che non esiste proprio più se non nella memoria dei suoi abitanti storici che hanno inventato leggende, prive di ogni fondamento, sulle sue origini.

Quattro vie, frutto di una lottizzazione di fine Ottocento, attorno a quella che oggi è la via Marconi, un piccolo rione popolare immediatamente a ridosso della “Palermo bene” che nel film non vediamo mai.

«Fabio mi porta a Bosco Grande e mi presenta Sergio che immediatamente mi fa capire che il film è lui. Mi spalanca un mondo, un sottobosco immenso - racconta Schillaci - ed è da lì che sono partito perché non puoi fare diversamente quando hai a che fare con persone reali, non puoi decidere per loro.

A un punk libertario, poi, non è che gli puoi dire tu cosa deve fare. Le tue intenzioni rimangono degli orizzonti entro i quali ti muovi, tutto il resto è una questione di fiducia. La persona che hai davanti ti mette in mano la sua vita e, seguendo quella, tutto è pressoché inaspettato. L’atto creativo del documentario è molto simile all’improvvisazione nel jazz».

Bosco Grande inizia quindi con questo slittamento dal sociale al personale che poi, forse, è l’unico modo per raccontare le cose.

Il documentario è un dialogo poetico e tragicomico tra Schillaci e Spatola circondato dalla sua corte, la famiglia e gli amici che gravitano intorno a lui che se ne sta seduto davanti alla sua bottega, in quel quartiere di cui è re ma di cui è anche prigioniero.

Per cinque anni, Schillaci va e viene da Parigi alla sua città natale e i suoi spostamenti si contrappongono all’immobilismo crescente di Sergio che non si muove da Palermo, anzi non si muove da Bosco Grande, poi non si muove da casa sua, poi non si muove dal suo letto.

Il corpo di Sergio incarna il punk nel modo più totale possibile. A ogni ritorno, Schillaci, con le sue riprese, registra i mutamenti sul corpo del protagonista e un dolore che c’è ma non si sente.

Ne ascolta gli aneddoti, ne riprende con grazia la quotidianità e le relazioni che si tessono attorno a lui, ne segue il tentativo di cambiamento che irrompe quando le sue condizioni di salute peggiorano e decide di andare a curarsi in una clinica da cui poco dopo scappa, ne cattura la grande autoironia così come la pulsione autodistruttiva.

Non lo sa dove lo porterà il percorso di vita così intenso, forte, iperbolico di una persona anarchica, la sua voglia di bruciare mistica e potente. Ne viene travolto, e noi spettatori insieme a lui.

Bosco Grande è stato presentato nella sezione Notti Veneziane 2024, all'interno delle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia, ha vinto il Premio Palumbo Editore Miglior Documentario in Concorso al Salina Doc Fest, ha riempito le sale prima di Roma e poi di Palermo, e sarà in concorso al RIDF Rome International Documentary Festival.

Con i suoi temi ricorrenti, il documentario fa germogliare i semi che Schillaci aveva gettato in due film precedenti "Apolitics Now – tragi-commedia di una campagna elettorale" del 2013 che raccontava la campagna elettorale per il sindaco di Palermo del 2012 e "L'ombra del padrino - ricerche per un film" del 2016, in cui indagava il legame tra identità siciliana e mafia dal punto di vista antropologico e storico, andando a completare, in modo più compiuto, il ragionamento del regista sulla sua città d’origine.

Bosco Grande è una produzione interamente francese, a dicembre verrà presentato in Francia e trasmesso su France Télévisions, mentre la nostra Italia super nazionalista non riesce a prendersi cura dei suoi autori, ma questa è un’altra storia.
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