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Se in Sicilia ti dicono 'nzivatu, sai cosa devi fare: come nasce la parola che "sa" di unto

Nzivatu è un'altra di quelle parole che tendiamo ad usare con una tale naturalezza che nessuno più si chiede da dove provenga la sua etimologia e quali siano le origini

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 7 gennaio 2022

Chef Rubio

Chi è cresciuto giocando in periferia lo sa, non c’era volta che non si tornava a casa tutti nzivati. Finita da scuola, un piatto di pasta al volo, i compiti (per chi li faceva) e subito a fare colletta con gli amici per comprare il leggendario Super Santos.

L'arancione Super Santos, che prende il nome dalla leggendaria squadra brasiliana, era il pallone dei professionisti del calcio stradale che, in ogni caso, entro fine giornata finiva sempre per spunnarsi (bucarsi) contro qualche filo spinato, costringendo i piccoli calciatori alle suddette collette quasi quotidiane.

Si è sempre narrata la leggenda dell’amico che con un colpo di accendino riusciva a sciogliere un po’ di gomma del pallone e riparare il buco… si è sempre narrato ma nessuno l’ha mai visto con i propri occhi.

Ora, siccome i campi non erano proprio regolamentari, anzi perlopiù costituiti di saracinesche che fungevano da porte, da tombini che facevano da cerchio di centrocampo e da macchine che delimitavano le linee di bordocampo, succedeva spesso che il pallone diventasse una fitinzia.
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I nemici giurati della pulizia erano le pozzanghere, che però ci facevano sentire ancor più temerari, ma soprattutto quando la palla finiva sotto qualche macchina.

In quel caso toccava buttarsi a terra, strisciare sotto l’auto di turno e cercare di recuperarlo con i piedi o peggio ancora con le mani, col risultato che il pallone tornava in campo ovale (o come dicevamo noi tutto sgummato).

Polvere, fango, grasso di macchine, quando le partite interminabili arrivavano al 90° perché i genitori ci venivano a prendere per i capelli, invece di trovare i propri figli trovavano tanti piccoli Calimero per quanto eravamo sporchi.

Puntualmente, tra una mano tra i capelli e un morso al palmo della mano per scaricare la rabbia, le mamme partivano con il solito rimprovero da copione: «guardati, sei tutto nzivati!». I papà, invece, che avevano paura delle mogli, tendevano dire: «guardati sei tutto nzivatu, appena ti vede tua madre!».

Nzivatu è un’altra di quelle parole che tendiamo ad usare con una tale naturalezza che nessuno più si chiede da dove provenga la sua etimologia e quali siano le origini.

Ora, per spiegarlo, dalla periferia ci spostiamo un attimo nel cuore pulsante di Palermo. Nel centro storico (i palermitani lo sanno) ci sta una via che si chiama Candelai, e di certo non si chiama così perché ci facevano le caramelle.

Anche se i miei coetanei la ricorderanno di più per essere una delle "rue" nevralgiche della movida e per essere il teatro dei più pittoreschi aggaddi (cioè aggalli, da combattimento tra galli per descrivere le risse), anticamente in questa strada di producevano le candele.

Cosa c’entrano le candele direte voi? Bene, il significato letterale della parola nzivato è unto.

Per capirci, se chef Rubio non fosse stato romanaccio ma palermitano, molto probabilmente il suo programma invece di chiamarsi "Unto & Bisunto" si sarebbe chiamato “Nzivatu & Stra-nzivato”.

Ma torniamo alle candele.

Questo antico strumento di illuminazione, antenato della torcia del telefono, viene inventato nel 500 a.C. dai romani. I romani, che senza cemento hanno fatto ponti che resistono ancora dopo due mila anni, mentre noi combattiamo ancora con il ponte Corleone (e questo mi fa pensare che ai loro tempi non c’erano ancora le gare d’appalto), per fare le candele usavano il sego e la cera d’api.

Ora, se anche a voi la parola sego vi ha portato a figuravi qualche parente della segatura, sappiate non c'entra niente con il legno. Il sego altro non era che un grasso di origine ovina, equina e bovina, che veniva estratto perlopiù dal cuore e dal rognone: lo stoppino veniva immerso nel sego e poi rivestito di cera d’api.

La buona notizia è che nel XIX sec. si è smesso di produrre candele utilizzando il sego. La cattiva notizia è che quando nel burro trovate la scritta "con aggiunta di grassi di origine animale" ci si riferisce a quello perché ancora lì si usa.

La connessione tra nzivatu e la candela sta proprio nell’unto che questi grassi producevano, motivo per cui una cosa nzivata è una cosa, più che sporca, unta. La parola, nella fattispecie, deriva da sivu, che a sua volta proviene da quella latina sebum, ovvero grassa; tanto è vero che la radice latina la si ritrova ancora nella composizione di determinati prodotti cosmetici per la pelle o i capelli.

A Palermo, tuttavia, avere il sivo significa anche avere u babbio, cioè avere la tipica riderella stupida per le scemenze (ma per questo ci rimandiamo ad altro articolo).

La prima volta compare la parola nzivatu in documento è a Catania nel 1345, ove viene espressamente scritto a proposito delle candele: candeli di sivu pinti.

Come ogni parola folcloristica che si rispetti nzivatu è diventato spesso e volentieri anche una nciuria, cioè un soprannome.

Quando ero bambino al panificio sotto casa era solito stazionare u zu’ Carmelo nzivatu. Carmelo era oramai un anziano ritiratosi da una onesta cinquantennale attività di ladro.

Si narra che per un San Valentino entrò in una gioielleria con l’intento di acquistare un anello per la moglie, senza badare a spese. Non appena il commesso gli porse l’anello col brillante, Carmelo, pensò bene metterlo in bocca e inghiottirlo.

Quel giorno non ci fu San Valentino né per lui né per il comando dei carabinieri che lo arrestò, dato che gli somministrarono qualche purga intrattenendosi per tutto il pomeriggio in una strana caccia al tesoro finché l’anello non saltò fuori.

U zu’ Carmelo era solito sedersi sul cabinotto esterno al panificio che conteneva il generatore elettrico e non disturbava nessuno. Fatti la nomina e va curcati, cioè una volta fatta la cattiva nomea c’è poco da fare.

Il panificio cominciò a lavorare poco perché di fronte stazionava questo eccentrico personaggio che non si portava appresso il pittoresco soprannome (nzivatu), non perché fosse sporco (anzi ci teneva alla pulizia) ma a causa del folcloristico misfatto.

Morale della favola furono costretti ad installare degli spuntoni sul cabinotto per non fare sedere più Carmelo che sicuramente ora riposa in un qualche cimitero in compagnia di una candela, per fortuna, non più nzivata di grasso animale.
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