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Scopre il padre assassino (e diventa suora): chi era la sorella della baronessa di Carini

Da bambina assiste al più atroce dei crimini e viene chiusa in convento. Negli anni diventa monaca e guida uno dei monasteri più importanti di Palermo

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 11 settembre 2024

Tra le possenti mura del monastero domenicano di Santa Caterina, sorto nel XV secolo per volontà testamentaria dell’aristocratica Benvenuta Mastrangelo, hanno vissuto numerose monache professe di alto lignaggio.

Nel seicento e nel settecento le religiose conducevano una vita molto agiata; scriveva lo studioso Giuseppe Pitrè: «Quelle superbacce di Santa Caterina per la loro rendita di 20.000 scudi all’anno spendono e spandono!».

Tra le figure più interessanti e controverse del Santa Caterina emerge quella della priora Suor Maria Lanza: entrata in convento ancora bambina, a soli 12 anni, era figlia di Don Cesare, conte di Mussomeli e della seconda moglie Castellana Centelles.

Se è vero che le colpe dei padri ricadono sui figli, la povera Suor Maria si fece carico (non sappiamo se consapevolmente o meno) di espiare con la sua vita il più atroce dei crimini: nella notte del 4 Dicembre del 1563, nel castello di Carini, suo padre Cesare aveva ucciso l’amatissima figlia Laura.
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Il delitto aveva fatto scalpore, arrivando fino alle orecchie del re di Spagna. Il Vicerè era stato costretto a ordinare la confisca dei beni di Cesare Lanza, ad incriminarlo e a far aprire un processo. Il Lanza, fuggito in Spagna si era recato direttamente dal sovrano, per presentare la sua difesa: non di omicidio, ma di delitto d’onore si era trattato.

Arrivato a Carini, senza essersi fatto prima annunciare, aveva trovato il genero, il barone Vincenzo La Grua, assai alterato. Aveva infatti sorpreso la moglie Laura e Ludovico Vernagallo (un suo lontano cugino), in flagrante adulterio, ma aveva preferito discretamente ritirarsi.

Cesare Lanza, conosciuto il fatto, accecato dall’ira, aveva provveduto a far sì che i due amanti venissero uccisi. I corpi erano stati in fretta sepolti nella Chiesa Madre di Carini.

Gli avvenimenti del delitto di Laura Lanza erano apparsi confusi e il movente non convinceva del tutto: perché, seppur presente, non era intervenuto il marito, offeso nell’onore in casa sua? Veramente il genero e il suocero non erano a conoscenza dell’adulterio? Il delitto era stato d’impeto o frutto di premeditazione?

La strategia difensiva del Lanza di fronte al re era stata costruita abilmente sotto il profilo giuridico, puntando sul delitto d’onore, infatti secondo l'antica legge dell'onore maritale (rintracciabile nella celebre "Lex Iulia de adulteriis" del diritto romano e in seguito nelle norme sull'adulterio di Ruggero II, recepite poi dalla costituzione di Federico II) al marito che avesse sorpreso in flagranza d'adulterio la moglie, era lecito uccidere nell’immediatezza entrambi gli amanti.

A rigor di legge avrebbe dovuto essere il barone di Carini a vendicare il suo onore, assassinando gli amanti, e non il padre di Laura, don Cesare ma la Lex Julia veniva solitamente citata in Sicilia in tutti i casi di delitto d’onore in cui era coinvolto il padre, il marito o il fratello, per avere una diminuzione di pena.

La difesa del Lanza non si esauriva qui perché egli affermava di essersi presentato spontaneamente davanti a sua Maestà e richiamava il privilegio dei cittadini palermitani di esser chiamati in giudizio solo in caso di reati gravissimi: il delitto d’onore non rientrava tra tali reati, poiché veniva punito con una pena minore rispetto all’omicidio comune.

Vincenzo La Grua e Cesare Lanza avevano ottenuto dal sovrano nel 1564 l’emanazione di un provvedimento liberatorio che imponeva alle autorità giudiziarie di sospendere ogni azione penale.

Il Lanza era stato assolto dal tribunale della giustizia terrena e gli erano stati restituiti i suoi beni e Brigida, monaca al Santa Caterina e “reliquia vivente”, sarebbe diventata strumento del diabolico padre, per implorare e ottenere il perdono del tribunale divino.

Chi era Suor Maria? I racconti dei padri domenicani ci restituiscono l’immagine di una monaca che aspirava alla perfezione (“Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” Matteo, 5,38) attraverso l’espiazione e la penitenza.

L'immagine di una donna impregnata di quella forte religiosità esasperata, che tendeva al misticismo, tipica del Seicento e del periodo della Controriforma. «Suor Maria Lanza acquistò in breve altissimo grado di perfezione», scriveva Domenico Maria Marchese nel 1676 in “Sacro Diario Dominicano”.

Divenne, seppur molto giovane, priora del monastero e lo governò “più con l’esempio che con le parole”. Ella era solita trascorrere le sue giornate in costante preghiera, sempre genuflessa, tanto da avere sulle ginocchia piaghe aperte e sanguinanti.

Durante l’orazione si commuoveva e piangeva di continuo. Desiderosa di mortificazioni, oltre a tormentare il suo corpo portando sulle carni nude un aspro cilicio, si cingeva i fianchi con una catena di ferro, si fustigava con grande spargimento di sangue, dormiva senza lenzuola e coperte su un duro tavolaccio e come Santa Brigida (di cui portava il nome prima di prendere i voti) si provocava a volte delle ustioni con cera liquefatta.

Per non rompere il voto del silenzio metteva in bocca un sassolino. Un giorno si fece calpestare il viso e la bocca da una conversa; a volte chiedeva alle monache di prenderla a schiaffi.

Se orrore provoca nel lettore l’elenco di tali pratiche, strappa quasi un sorriso l’abitudine della priora di sdraiarsi spesso su un catafalco, “per morire tutta al mondo”: circondata dalle altre domenicane chiedeva loro di simulare “l’Officio dei funerali”, con pianti inconsolabili ed elogi della defunta.

Suor Maria svolse, prima di esser madre superiora, il ruolo di Celleraria (addetta alle spese contabili per l’acquisto delle derrate alimentari) e le capitò più volte di venire offesa verbalmente in modo grave da altre monache; invece di adirarsi si gettò ai piedi delle sorelle, chiedendo loro umilmente il perdono.

Diventata priora del monastero di Santa Caterina, si recava di notte, di nascosto (per non ricevere lodi e apprezzamento dalle consorelle) a curare e accudire le ammalate. Pretendeva che le religiose si astenessero da pettegolezzi e maldicenze perché causano sempre danno al prossimo.

Era molto devota della Madonna e durante il suo priorato diede il nome “Maria” (che ella stessa del resto portava) a tutte le monache che professavano i voti solenni. Racconta Domenico Maria Marchese che una volta una monaca le mancò gravemente di rispetto, suscitando lo sdegno di tutte le altre domenicane.

Suor Maria per non venire meno ai suoi doveri di Madre Superiora si vide costretta a punire la religiosa; ma grande fu la sorpresa di tutte quando ordinò alla monaca di pregare, recitando il Miserere ed altri salmi, e cominciò a infliggere a se stessa, al posto della rea, la punizione corporale.

La pecorella smarrita, tutta compunta, da quel momento in poi si comportò in modo esemplare, da buona religiosa. Suor Maria Lanza morì anziana, “carica d’anni e di meriti”, in fama di santità, con l’immagine della Madonna stretta al petto, il 24 Luglio del 1603.

Il padre Cesare si era spento qualche tempo prima e nel suo testamento non c’era stato nessun accenno né alla figlia Laura, né ai nipoti La Grua e meno che mai un segno di pentimento o una richiesta di perdono.

In quell’estate del 1603 l’amaro caso della baronessa di Carini, orrendo crimine maturato in ambito familiare e probabilmente motivato in realtà da spregevoli interessi economici, era ormai solo un ricordo sbiadito.

Il tragico fatto di sangue. messo a tacere dalle potenti famiglie coinvolte, avrebbe però attraversato i secoli attraverso la voce poetica del popolo, per giungere a disvelarsi in tutta la sua potente spietata ferocia solo grazie agli studi di Salvatore Salamone Marino (supportato da Giuseppe Pitrè) e alle scoperte d’archivio di Adelaide Baviera Albanese.
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