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San Mamete e "lu pilu di la minna": cosa significa in Sicilia un (buffo) modo di dire

Non si tratta di un difetto estetico, ma di un problema diffuso tra le neo mamme. Il santo patrono delle balie: probabilmente in seguito al legame tra il santo e il latte

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 19 giugno 2023

Un tempo la scomparsa del latte materno, nel periodo dell’allattamento, rappresentava per la madre un incidente molto grave, dal momento che non c’erano altri modi per alimentare il bambino.

Solo le famiglie più abbienti potevano permettersi una balia. Nell’ottocento, ricorda Giuseppe Pitrè, a Palermo si credeva che le migliori balie fossero quelle di Piana degli Albanesi; nei primi del Novecento invece la scelta ricadeva spesso sulle donne di Porticello.

Tra il popolo erano diffuse numerose pratiche magiche e prescrizioni di medicina popolare, per rimediare alla perdita del latte materno. Bisognava scongiurare sia la agalaxia (la mancanza di secrezione lattea) che le malattie del seno come la galottoforite (l’infiammazione dei condotti del latte) detta in Sicilia pilu di la minna (pelo della mammella).

Alcune mamme producono quasi più latte di quanto il proprio seno possa contenere, il liquido diventa quindi duro come la pietra e fastidioso: questa condizione viene chiamata ingorgo mammario. Oltre a essere doloroso, può causare difficoltà nell'allattamento al seno, che a propria volta può aggravare il problema.
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“Al primo infiammarsi delle mammelle si ricorre alla protezione di S. Agata, la cui immagine si piega ed attacca alla parte ammalata ...” scrive il Pitrè; ma facciamo un passo indietro per comprendere meglio i riti legati all’allattamento.

In “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano” (1889) lo studioso di tradizioni popolari, afferma che era consuetudine diffusa che il neonato nei primi tre giorni ricevesse solo qualche cucchiaio di olio di mandorle dolci, per sbarazzarsi del meconio (prime feci del materiale ingerito dal feto durante la vita intrauterina); poi veniva finalmente attaccato al seno materno.

Poteva accadere che una forte emozione, un vivo dispiacere della donna che allattava potesse influire sulla qualità del latte, fino al punto di far stare male il figlioletto. Il rimedio adottato consisteva allora nel non far poppare subito il bambino, oppure prima di nutrirlo la mamma schizzava per terra un filo di latte ed ungeva di olio le gengive e il palato del bambino. Durante la poppata la madre non beveva nulla, per timore che il liquido si potesse mescolare al latte e potesse guastare lo stomaco del bambino.

Era diffusa inoltre la credenza che il latte di una donna che aveva partorito una figlia femmina non avesse le buone qualità del latte di chi aveva messo al mondo un maschietto. Per accrescere la secrezione del latte c’erano poi dei piccoli segreti: la mamma doveva mangiare lattuga bollita, indivia con la pasta, pane ricoperto di sesamo, pesce lesso, pasta incaciata con molta acqua di cottura, pane inzuppato nel vino, pasta con ricotta e cipolla e a volte acqua mista a lievito, ortica bollita.

Aggiunge però il Pitrè (non bisogna dimenticare che era un medico) una precisa notazione scientifica: “quando il latte ha da venir meno, verrà meno con tutte le lattughe e le cipolle di questo mondo”.

Quando il seno materno non produceva più latte, si ricorreva allora a vari rimedi casalinghi, quasi dei riti magici, per sollecitare la secrezione: mangiare una focaccia con la farina preparata da più donne oppure pane e vino regalato da una commare, o bere del vino caldo in cui erano stati aggiunti escrementi di mosca…

Se al contrario il latte era troppo abbondante, sopravveniva l’ingorgo parziale dei condotti galattofori (spesso con febbre), comunemente inteso come pilu di minna o pilu a la minna.

Anche qui le credenze popolari non mancavano: bisognava applicare sulla mammella rigonfia una focaccia o delle foglie di cavolo, o munger la mammella dinanzi al fuoco o all’angolo di una parete, dar latte al bambino con la mammella rialzata o bere dell’acqua in cui era stato disciolto del lievito.

Il pilu di la minna, breve ma dolorosa malattia, secondo una leggenda raccolta dal Pitrè a Nissoria e pubblicata in “Fiabe e Leggende”, ebbe origine da una vendetta del patriarca S. Giuseppe.

Narra la storiella che un giorno San Giuseppe chiese in elemosina un tozzo di pane ad una donna che si stava acconciando i capelli. La femmina, non aveva voglia si interrompere i suoi preparativi per fare la carità al santo vecchio. A un tratto il figlioletto si mise a piangere e la mamma se lo attaccò al petto.

San Giuseppe indispettito si staccò un pelo dalla barba e glielo lanciò sul seno e da quel momento alla donna venne “u pilu a minna” (il pelo alla mammella). Qualche tempo dopo San Giuseppe passò ancora a chiedere l’elemosina e la madre, pentitasi, implorò il santo di guarirla.

Il Patriarca allora recito questa orazione: “Pilu di minna, vattinni di ccà/E ti nni veni ‘nta la barba mia/Figghiolu a durmiri/mamella a ripusari!” E così la sanò. Un altro studioso, Salvatore Salomone Marino, trascrive una seconda leggenda, raccolta a Borgetto: il “Cuntu di San Munnanu”. San Munnanu (o Menna) è uno dei tanti santi creati dal fantasioso immaginario popolare siciliano: santi pieni di difetti (e di pura invenzione) come Santu Macari, Santu Liufanti, San Pannuzzu, San Bindo e tanti altri.

La storia di Munnanu, anche se in veste scollacciata e con un linguaggio impudico intende dare una lezione di morale. Si racconta che San Munnanu era un nano, gobbo e brutto; aveva una lunga barbaccia e andava sempre in giro a cercare femmine, perché era molto vizioso e gli piacevano assai le ragazzine.

Per fortuna, il signore l’illuminò e Munnanu si pentì della sua lussuria e si mise a far penitenza. Se ne andò a Roma, dal Papa in persona, per farsi assolvere dai suoi numerosi peccati e fece l’eremita per sette anni, in una grotta sotterranea. Fu così che diventò santo e riprese ad andarsene in giro per il mondo; ma di ritorno da Roma incontrò per caso due femmine scostumate, che si misero a provocarlo con questo motteggio: “Munnanu, Munnanu ch’è ‘mmenzu la via/Tri parmi era longu, tri parmi l’avia!” “Munnanu, Munnanu che sta in mezzo alla strada, tre palmi era alto e tre palmi l’aveva” intendendo dire la barba, chiarisce il Salomone Marino, ma il santo si offese perché aveva intuito il doppio senso del motteggio e punì le femmine che lo avevano provocato.

Si scippò un pelo dalla lunga barba incolta e lo gettò sul seno di quelle donnacce. Entrambe avevano il petto scoperto perché stavano allattando e il santo esclamò: “Comu vi jettu stu pilu’nta li minni, accussì vi cci vegna lu mali!”. Immediatamente la maledizione ricadde sulle donne, che si misero a piangere per il dolore, perché il latte creò loro un ingorgo mammario.

Quando una mamma aveva un ingorgo mammario veniva dunque detto lu pilu di la minna, per il pelo della barba di San Munnanu. Alcune donne recitavano un’orazione per guarire. Secondo alcuni studiosi Munnanu, santo da burla, piuttosto grottesco, si potrebbe identificare con S. Mamante o Mammano a sua volta identificato col bizantino S. Mama: pastore, che fa da balia ai trovatelli e protegge i lattanti.

Mamante, che era cristiano, si era rifugiato sui monti per sfuggire alle persecuzioni e si fa risalire il suo martirio all’epoca dell’imperatore Aureliano. Mamante conduceva una vita dedita alla pastorizia ed alla preghiera. Il formaggio che produceva veniva fatto recapitare ai cristiani incarcerati.

Alla sera gli animali e le bestie selvatiche, che con lui diventavano mansuete, accorrevano per essere istruite nel Vangelo e per lasciarsi mungere. San Mamete è patrono delle balie: probabilmente in seguito al legame che la tradizione istituisce tra questo santo e il latte con cui venne nutrito.

In molte zone pastorali era particolarmente invocato anche dalle puerpere, per avere latte a sufficienza per i figli. Oggi l’allattamento, nonostante i benefici sia per il bambino che per la mamma, è una pratica poco diffusa: nel 2019 in Sicilia soltanto il 64% delle madri allattava al momento della dimissione in ospedale e solo il 16% delle madri nutriva ancora al seno il bimbo al sesto mese di vita…si tratta dei dati più bassi della media nazionale.
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