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Palermo e la moda di "sferruzzare": la lana era al Capo e le scorte le facevi alla Standa
Lavorare ai ferri era di moda negli anni '70 e '80. Si realizzavano dei veri gioielli di lana e si usava anche la ciniglia, per scialli luxury per il teatro o una gran soirèe
La Standa di via Sciuti a Palermo (foto da Facebook)
Quella merceria esiste ancora, dietro il bancone, adesso, ci stanno i figli della signora, un posto che ha resistito al passo con i tempi nel mondo dei filati. La proprietaria, negli anni '70 era una giovane mamma, all'avanguardia, idee chiare, energia a mille, e il commercio nelle vene.
Non solo lana di prima qualità, ma ferri in alluminio, telai, gomitoli variopinti, aghi, bottoni, e tante idee per realizzare in breve un caldo scialle di lana con i lembi chiusi da un occhiello con un bel bottone in tinta, o semplicemente da una bellissima spilla.
Lì c'erano matasse di lana pregiata e nuance così chic da sembrare irlandesi. Nella Palermo antica, e precisamente al Capo c'erano delle botteghe di grossisti che vendevano matasse di lana a peso, mentre la Standa di via Sciuti era il grande magazzino per eccellenza dove si potevano fare belle scorte.
E così lavorare ai ferri era diventata una moda. Un ferro stava vicino al braccio, mentre i gomitoli scivolavano per terra, nell'altro braccio sfrecciavano le dita incrociandosi.
Colori caldi: verde marcio, rosso natale, beige castagna, cioccolato, caffè. E contare punti. Ricordo ancora l'arcolaio in legno da tavolo, un telaio con le parti allugabili che serviva a riavvolgere i fili della matassa aperta, e in mancanza di questo c'erano le braccia aperte, le mie e quelle di mia sorella.
Mia madre realizzò mantelle, copertine, maglie per noi bambine, pullover per mio padre, colli alla dolce vita, maxipull, "scialline", scarpette per neonati e scaldamuscoli! Dei veri gioielli fatti con il cuore. Ai ferri si poteva lavorare anche la ciniglia. Venivano fuori scialli luxury per il teatro o per una gran soirèe.
Vedere crescere quel lavoro, ogni sera, davanti la nuova televisione a colori, era soddisfazione, entusiasmo, creatività, in una società dal progresso ancora lento. Quello "sferruzzare" era una sorta di convivialità tra amiche che si ritrovavano con una passione antistress, un modo per tenere impegnata la mente, conversare, imparare, e confrontarsi.
Un vero hobby d'oro. "Intrecciamo storie, portiamo calore" era il motto del relax condiviso a Palermo in pomeriggi d'inverno dove venivano fuori trecce e rombi da sembrare pullover firmati acquistati da Bla Bla di via Enrico Parisi. Ogni intreccio di quei ferri corrispondeva ad un sentimento vero, sincero, autentico e mai artefatto. Del resto già i Burda di allora tracciavano le linee per essere una buona e sincera operaia.
E non c'era furbizia. Se provavi a fare la furba il lavoro andava storto e dovevi scucire tutto per ricominciare. E non era detto che sarebbe stata la volta giusta! Lavorare ai ferri era una cosa seria, ci voleva attenzione, fortuna, non poteva aiutarti nessuno, e non era richiesta nessuna abilità, anzi ripeto, quest'ultima sarebbe stata nociva per ultimare il lavoro.
Insomma, un capo fatto ai ferri recitava quanto fossi stata autentica. E infatti poco dopo mia madre volle che anche io e mia sorella imparassimo con i ferri "misura 1". Agli albori degli anni '80 uscì per la prima volta "la macchina da maglieria": bastava inserire i fili di lana in una rete di metallo ricca di ganci, e il nuovo macchinario del progresso avrebbe realizzato tutto da solo.
Era ingombrante e stava al centro della stanza. Ricordo che al pomeriggio c'era sempre una riunione al femminile per assistere a quel rumore costante dei fili che venivano intrecciati meccanicamente e velocemente, facendone uscire fuori un capo.
I ferri vennero riposti nella loro custodia e venne meno la passione di creare una cosa propria però rimase un insegnamento: con i ferri imparammo tutte che ogni passione artefatta prima o poi avrebbe ingannato il lavoro con il rischio di scucire e mai più ricominciare.
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