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Palermo e il centro storico senza "identità contemporanea": un ritardo (imbarazzante) di 50 anni

Palermo è tra le poche grandi città del Mediterraneo ad aver messo da parte volutamente il rapporto significativo tra l'architettura contemporanea di qualità e la bellezza urbana ereditata

Danilo Maniscalco
Architetto, artista e attivista, storico dell'arte
  • 15 giugno 2021

L'edificio in cemento armato costruito tra il 1961-65 in via Vittorio Emanuele a Palermo dagli architetti Giuseppe Caronia e Luigi Vagnetti

Palermo è tra le poche grandi città del Mediterraneo ad aver volutamente messo da parte il rapporto significativo tra l'architettura contemporanea di qualità e la bellezza urbana ereditata da un passato glorioso.

Le vicende urbanistiche di una città che ha martoriato il proprio territorio agricolo sostituendo al rigoglioso verde il grigio del cemento armato troppo spesso di scarsa qualità estetica durante la speculazione del sacco edilizio, se da un lato hanno apparentemente blindato il perimetro della città murata con il contenuto di preziose stratificazioni millenarie, hanno comunque inciso negativamente con l’attivazione di piani urbanistici la cui idea di partenza ha di fatto congelato il tempo impedendo nuove "unità stratigrafiche contemporanee".

È funzione di questa schizofrenia concettuale il P.P.E. (piano particolareggiato esecutivo) che consegna oggi un centro storico dai mille problemi e nodi irrisolti nel vagheggiante ideale di una salvaguardia che con la sola apposizione di vincoli non può che salvare soltanto l'idea ma non la sostanza dello spazio urbano.
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Siamo in un ritardo imbarazzante di almeno cinquanta anni. Oggi la città spagnola di Murcia sarebbe impensabile senza il municipio di Raphael Moneo, il Boubourg di Piano è una presenza fortemente identitaria per ogni parigino, non sarebbe immaginabile una Berlino senza i prodigi di Libeskind, Eisenman e Foster, piazzale Cadorna a Milano senza Gae Aulenti in costante dialogo col gigantismo di Claus Oldenburg, Firenze senza la stazione di Santa Maria Novella, Napoli senza la modernità delle sue stazioni metropolitane fortemente volute da Achille Bonito Oliva, non esiste grande capita le culturale che custodisca gelosamente la propria anima moderna ma per Palermo questa resta soltanto storia interna ai manuali universitari di storia dell'architettura.

Poco o nulla si muove sul versante politico a definire indispensabili strategie di costruzione di una identità contemporanea affidata all'architettura di qualità, men che meno si è metabolizzata l'esperienza europea che ha portato maestri come Frank O. Gehry o Alvaro Siza a ridisegnare le fortune economiche, culturali e turistiche di città con analoghe specificità alla realtà palermitana, eppure qualcosa tra gli anni Cinquanta e Sessanta prima che la deriva socio-culturale del binomio politica-mafia devastasse interamente il territorio e la sua storia, ebbe la possibilità di sedimentare piccoli brani di qualità progettuale soprattutto tra la parte mediana e finale del Cassaro in direzione del mare.

Ne rappresenta esempio virtuoso l'elegante edificio in cemento armato costruito tra il 1961-65 al civico 265 di Corso Vittorio Emanuele dagli architetti Giuseppe Caronia e Luigi Vagnetti, entrambi docenti della Facoltà di Architettura del capoluogo siciliano, saggisti e studiosi impegnati in una intensa attività progettuale di alto mestiere.

L'edificio, compatto e definito da un rilevante impaginato monumentale si articola in sei piani fuori terra, costituendo il fronte sul Cassaro con un sistema di portici sagomati che assecondano la topografia cangiante del piano stradale, in perenne confronto con la bellezza della chiesa Barocca di San Matteo.

Nessuna sbavatura formale, nessuna esagerazione linguistica, nessuna evocazione del fantasma dell'edificio chiamato a sostituire a causa dei danni bellici (il seicentesco Palazzo Paternò), nessun desiderio di stravolgere il continuum spaziale di un luogo singolare come era ed è ancora oggi il cuore pulsante della città, ma al contrario la volontà palese di esprimere la pienezza della cultura progettuale coeva all'intervento.

Un intervento di grande equilibrio formale e sensibilità artistica, prodotto in un tempo già distante anni luce dal nostro, in cui il nemico sembra oggi essere diventato la contemporaneità e dunque noi stessi. Un noi che se non deciderà di essere svegliato destandosi da un lungo sonno improduttivo, non lascerà alcuna traccia estetica significativa, nessun buon esempio da ammirare, nessun luogo urbano stratificato in continuità di diritto con la Storia.
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