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"O patruni e sutta" nelle bettole di Palermo: alzi la mano chi non ha mai giocato al Tocco

Le origini storiche e sociali del gioco alcolico del "Tocco" sono tutt'altro che plebee. Persino nella Roma dei Papi, qualcuno volle provare il gioco con i suoi cardinali

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 3 marzo 2023

Il signore degli anelli

Sarà che più il valore numerico della mia età aumenta, (sappiatelo che dentro sono un picciuttieddu), e più la nostalgia s’appizza, mi capita sempre più spesso di ripensare ai tempi che furono, sopratutto a quando giovane e stupido, (soprattutto stupido), a bordo del vespino montato ottantino me ne andavo in giro con gli amici a fare lo scafazzato.

Questo capitava soprattutto quando, tipicamente verso gli ultimi giorni dell’ anno scolastico, uno se la buttava da scuola, (ai tempi dicesi marinare la scuola) e - a parte Mondello o la sala giochi uno dei posti di ritrovo - erano le bettole al Capo o all’Albergheria, unici posti dove, furtivamente, potevi bere una delle prime birre scatò in lattina atturrate.

E qui si poteva assistere al gioco del tocco, o patruni e sutta, a quell’epoca assai diffuso per goliardiche bevute tra amici.

Piccamora probabilmente si usano altri giochi per bere in compagnia, (proprio giorni fa su un noto sito di e-commerce ho visto un gioco che si chiamava sbronzopoli e non sto babbiando), ma nessuno di questi può vantare la storia del tocco.
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Diamo subito uno sguardo veloce, e semplicistico, alle regole. Premesso che il tocco si fa rigorosamente senza mangiare nulla (unica deroga delle polpette di pane fritto o uova sode che assuppano), si procede alla conta.

Ve lo ricordate il “i mia, i mia, i miiiia!” buttando un numero con la mano? Ecco quella.

Quello che esce dal tocco ( da cui il nome del gioco) è u patruna che ha facoltà di nominare un "sotto". A questo punto u patruna propone al sotto la bevuta di alcuni al tavolo.

A tipo "con rispetto parlando ci rico au sutta che pi mia hanno viviri Vicè, Iachino e Tanuzzo. Ma chidda i Tanuzzu ma vivo io, Vicè l’ ha viviri affunciannu tutto r’un ciauto, (cioè deve bere dalla bottiglia tutto di un fiato), e a Iachino a salute”.

Ora le cose sembrano chiare, se non fosse che in realtà un veru patruna è il sotto, il quale può contestare la decisione ru patruna e dire ad esempio “a mia un m’ attigghia! Chidda i Tanuzzu ma vivo io, e chidda i i Iachino e Vicè sa vive Totò a salute ru patruna!

Insomma appare evidente che il punto saliente del gioco è fare ubriacare o, al contrario, far rimanere appinnuto (cioè a bocca asciutta), una vittima designata.

Non è raro che, a seconda del numero di giocatori al quale in effetti non vi è limite, si formino delle vere e proprie fazioni avversarie. Ovvio che spregi, rivalità, ironia, babbio, affermazione di posizione di potere (da qui la diceria, tra il serio ed il faceto che il tocco fosse il gioco dei mafiosi), e discorsi si fanno via via sempre più infervorati man mano che l’alcol acchiana.

Lo scopo in realtà sarebbe quello di confinare rivalità, antagonismi e questioni all’interno di una gestione prettamente ludica, ma se dopo esserti inchiummato tre litri di vino in pietra la "ludicità" se ne va a cachì e partono le sciarre beh... quelli sono altri discorsi.

Senza tralasciare che spesso gli spettatori, per l’appunto, sono li proprio perchè aspettano u teatrino dell’aggaddo (il litigio).

D’altronde se lo stesso Antonino Traina, nel suo vocabolario siciliano-italiano definisce u toccu come "gioco plebeo che consiste nel disporre e bere del vino messo in gioco, con inviti e diritti secondo regole", un motivo ci sarà pure.

Ma nell’estremo tentativo di riabilitare e nobilitare u toccu, mi piacerebbe narrarvi che le origine storiche e sociali, sono tutt’altro che plebee.

A ora di divertimenti gli antichi romani non erano secondi a nessuno, e pare che nella Roma antica, alla fine degli schiticchi di quelli seri, fosse usanza osservare il Simposio, in cui il Simposiarca, mastro designato alla convivialità, dava indicazioni sulla degustazione di vini di particolare pregio, il tutto accompagnato da canti, poesia ed altri intrattenimenti (anche di natura erotica).

Ci volle poco perchè tale patrizia usanza desse origine al più plebeo gioco della passatella, menzionato persino da Catone ed Orazio i quali, evidentemente, tra una oratria ed una poesia non lo schifiavano un calice, e le cui regole erano quasi identiche a quelle del nostro tocco, a parte che lo scopo era quello di far rimanere a bocca asciutta una vittima ben precisa che veniva chamato ormo.

Il diletto di tale gioco arrivò fino al tempo della Roma dei Papi, dove pare che lo stesso Papa Sisto V, cercando di capire il motivo delle frequenti risse nelle osterie, volle provare tale gioco con i suoi cardinali.

Sisto fu talmente fatto ormo (alias piagghiato pi fissa) che furono i servi che gli scipparono dalle mani le eminenze prima che lui ne facesse mala minnitta in un divino aggaddo.

Pare che persino i greci, che sunnu comu u petrosino, avessero un gioco simile detto Cottabo, (dal nome del recipiente usato per bere), che consisteva nel cercare di colpire con il residuo alcolico del cottabo stesso, dopo aver bevuto, un piccolo piattello posto a galleggiare in una tinozza, cercando di non farlo affondare prima di un altro partecipante.

Il gioco venne importato nelle colonie sicule ed adattato a scopi più “popolari” e di facile esecuzione.

Vi lascio che una poesia di Nino Martoglio (scrittore e poeta sicilano) in cui descrive la dinamica del tocco. A salute!

'U TOCCU
('ntra la taverna d' 'u zù Turi u' Nanu)

Attoccu ju... vintottu 'u zù Pasquali...
Biviti? – Bivu, chi nun su' patruni?
– Tiniti accura... vi po' fari mali...
Maccu haju a' casa! – E ju scorci 'i muluni!...

– Patruni fazzu... – A cui ? – A Ciccu Sali
– Ah!... E sutta? – A Jabicheddu Tartaruni.
– (A mia 'mpinniti ?... A corpa di pugnali
finisci, avanti Diu!...) – 'Stu muccuni,

si quannu mai, ci 'u damu a Spatafora?...;
– Troppu è, livaticcinni un jriteddu.
– Nni fazzu passu!... – A cui?... Nisciti fora!...

A mia 'stu sfregiu? – A vui tintu sardaru!...
Largu! – Largu! – Sta' accura! – 'U to' cuteddu!...
– Ahjai, Sant'Aituzza!... m'ammazzaru!
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