MUSICA
"Mi votu e mi rivotu" in Sicilia (per amore): la vera storia del canto di un innamorato
Una delle canzoni siciliane rese eterne dalla voce struggente e graffiante di Rosa Balistreri. La sua origine si fa risalire però a molti anni prima. Ecco la sua storia
Rosa Balistreri
Un canto amaro, dove il pensiero costante della persona lontana da occhi e membra s’impossessa e consuma il/la protagonista che si rigira senza sosta e in pena nel suo letto. La canzone pare risalga al 1700, mentre l’identità dell’autore, come la maggior parte dei canti popolari siciliani, è avvolta da un alone di mistero; anche se la cantante che ne fece un vero e proprio tratto distintivo del suo percorso artistico e della sua scaletta musicale è certamente Rosa Balistreri.
Un incontro fatale tra la cuntastorie e "Mi votu e mi rivotu" che attribuisce a un carcerato e, come lei stessa dichiara in un'intervista, sente più suo specie durante la solitudine. E oltre al testo dalla bellezza struggente è proprio la voce di Rosa a consacrare il brano all’eternità.
L’unico spiraglio in questa marea di pensieri è la speranza, magari un giorno, di avere quella persona al proprio fianco. Speranza che lo accompagna fino alla morte, unica tomba dove abbandonare corpo e pensieri.
Come riporta lo stesso testo:
Mi votu e mi rivotu suspirannu passu li notti ‘nteri senza sonnu.
E li biddizzi tò iu cuntimplannu li passu di la notti ‘nsinu a jornu.
Pi tia nun pozzu ora cchiù durmìri
paci nun havi cchiù st’afflittu cori.
Lu sai quannu ca iu t’haiu a lassari:
quannu la vita mia finisci e mori.
"Non dormo né riposo a te pensando passo le notti intere senza sonno.
Le tue bellezze contemplo così passo il tempo dalla notte al giorno.
Per te ora non posso più dormire
Non ha più pace questo cuore afflitto
Sa quando ti devo lasciare:
quando la mia vita finisce e muore".
Questi versi tradizionali sono stati arricchiti dalla cantautrice siciliana da una seconda strofa:
Palumma chi camini mari mari
ferma, quantu ti dicu du paroli quantu ti tiru ‘na pinna di st’ali
quantu fazzu ‘na littra a lu me amuri.
Li littri ti ‘nni mannu a tri a dui
posta ca di tia nun ‘aiu mai.
"Colomba che voli per i mari
fermati, che ti dico due parole e tiro una tua piuma dalle ali
e scrivo una lettera al mio amore.
Le lettere te ne mando a tre a tre e a due a due
posta che da te non avrò mai".
Versi che invocano il messaggero di Venere, la colomba, con l’invito a fermare il suo peregrinare e consegnare le missive. Una, due e tre lettere, Rosa è pronta a scriverle tutte sapendo che dall’altra parte, forse, non ci sarà mai alcuna risposta.
La replica però arriva dal ricordo della canzone nelle raccolte di canzoni siciliane, come quella del poeta acese Lionardo Vigo Calanna e dello scrittore palermitano Giuseppe Pitrè e dagli estimatori odierni, dalla Sicilia orientale a quella occidentale, che la considerano poesia.
Non mancano neppure le interpretazioni di artisti noti come Carmen Consoli, Mario Venuti e Ornella Vanoni, perché questo canto, al limite dell’ossessione, ci ricorda prima di tutto che il traguardo d’amore per l'animo umano è fatto o preceduto anche di desiderio e tormento, non solo di una smodata e spesso accecante felicità.
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