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Magico fino alla (finta) morte: Cagliostro fece finta di morire per scappare da San Leo

Doveva morire in galera come previsto dal Tribunale della Chiesa Cattolica ma sono molte le contraddizioni tra diversi atti, lettere e tentativi di insabbiamento

  • 2 settembre 2019

La fortezza di San Leo (Rimini) usata come carcere fino al 1906

Mettendo a confronto alcune lettere private tra alte cariche dello Stato Pontificio (dell'epoca), documenti trovati duecento anni dopo e atti pubblici non possiamo non notare che ci sono delle incongruenze.

Giuseppe Balsamo conte di Caglostro, ideatore dell'Elisir di Giovinezza, mago e alchimista è forse scappato dalla fortezza di San Leo e non morì, come si pensa, alla fine del Settecento. Vediamo.

Nell’Atto di Morte del conte di Cagliostro, trascritto il 28 agosto 1795 dall’Arciprete Luigi Marini c'è scritto che morì il giorno 26 agosto 1795 "alle ore 3 dopo mezzanotte" (sub horam 3 cum dimidio noctis) e fu tumulato alle 23 del giorno 28 agosto sul monte nel terreno della R.C.A. (Reverenda Camera Apostolica).

Nella rivista ufficiale dei Gesuiti "La Civiltà Cattolica" del 4 gennaio 1879 c'è scritto che "Serrato nella Fortezza di San Leo e sorpreso da un colpo di apoplessia il dì 21 agosto 1795 senza aver dato alcun segno di religione, Cagliostro pose fine al suo romanzo che interessò l’Europa".
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E nella lettera mai pubblicata del 29 agosto 1795, trovata tra le carte del gesuita padre Bresciani, co-fondatore de "La Civiltà Cattolica" il conte Sempronio Semproni (comandante dela Fortezza) scrive "nel giorno 21 verso il mezzogiorno fu colpito da forte apoplessia il rilegato Giuseppe Balsamo detto Cagliostro, per cui fu dalla guardia ritrovato affatto privo di sentimenti e cognizione […] in tale stato sopravvisse fin circa le ore quattro della stessa sera in cui dovette cedere alla violenza del male e spirò".

E continua "Per istruzione del nostro Vescovo, è stato questi, per essere sempre vissuto con massime decise da vero eretico né avere dato mai segno di resipiscenza, sepolto fuori di luogo sacro e senza formalità alcuna ecclesiastica".

Un’altra versione della morte del conte di Cagliostro è quella riportata nella lettera di Monsignor Fernando Maria Saluzzo che inviò al Segretario di Stato Pontificio, il Cardinale Francisco Xaverio de Zelada, il 28 agosto 1795 e recita "il Castellano Sempronio Semproni mi dice dunque che, sorpreso verso il mezzodì (non è precisato se si tratta del 21 o del 26 agosto) il detto Rilegato da un forte colpo di apoplessia, la sera medesima sulle ore quattro cessò di vivere".

Evidentemente qualcosa di poco chiaro avvenne in quel periodo nella fortezza di San Leo.

Nel 1962, quasi duecento anni dopo, lo storico latinista Italo Pascucci (deceduto nel 1992) trovò alcuni documenti che riportavano le dichiarazioni dell’Arciprete Marini sul fatto che l’atto di morte, compresa l’ora, avrebbero dovuto essere riviste.

Infatti, secondo le sue dotte osservazioni, la morte sarebbe realmente avvenuta alle ore 22,17 (così interpretò la lettura "sub horam 3 cum dimidio noctis" di martedì 26 agosto 1795 e di conseguenza, anche il triste funerale, con successivo seppellimento, avrebbe avuto luogo alle ore 18,15, invece che a "hora 23, del 28 agosto".

Anche per quanto concerne la cerimonia esistono dei dubbi: l’unica conferma di quanto accadde fu riportato dalle parole di un leontino di nome Marco Perazzoni, un bambino di 9 anni, sedicente testimone diretto che nel 1878 affermò che aveva partecipato alla tumulazione del conte Cagliostro.

Il bambino descrisse dettagliatamente le fasi del seppellimento e descrisse dettagliatamente il conte.

È mai possibile che abbia conosciuto il "Cagliostro vivo e morto" (sue parole) nonostante i severissimi ordini a proposito dei contatti che il conte avrebbe dovuto avere durante la prigionia a San Leo?

Alla tumulazione non assistette nessun paesano ma assistettero soltanto: il conte Sempronio Semproni, il Medico del Forte (il dottor Giulio Cesare Pazzaglia), il Tenente Pietro Gandini (Comandante la guarnigione di San Leo), l’Aiutante Marini, il caporale Antonio Nalini, i preti addetti alla Parrocchia e i pochi soldati della guarnigione della Fortezza adibiti alla sua diretta custodia.

Tra essi anche Gerolamo Venturini detto "il Rosso", il quale ebbe un ruolo importante nella fuga del Conte dalla bocca del leone della Fortezza, che però l’aveva mai visto in faccia perché come ordinato dal Tenente Pietro Gandini al Segretario di Stato Pontificio in una lettera del 22 aprile 1791, Cagliostro doveva rimanere totalmente isolato.

Durante i giorni 27, 28 e 29 agosto del 1795 quindi tra il Cardinale Francisco Xaverio de Zelada (Segretario di Stato Pontificio), il conte Sempronio Semproni e il Cardinale Ferdinando Maria Saluzzo (nuovo Legato Pontificio di Pesaro e Urbino) vi fu una fitta ed intrigata corrispondenza scritta.

In precedenza il conte Cagliostro aveva cercato di fuggire da San Leo ma senza successo e si suppone perciò che avesse fatto un nuovo tentativo con l’aggressione al frate cappuccino e, dopo il "trauma subìto" (così come descritto nel manoscritto anonimo), fosse veramente entrato in uno stato di malinconia in attesa della morte naturale del povero Michele Rinaldi (un detenuto di 89 anni che morì il 26 agosto 1795, cioè nella stesso giorno attribuito al conte), e con l’intenzione di aggiungere il proprio corpo, ormai ritenuto cadavere dopo le inutili stimolazioni (ma in realtà in stato di catalessi volontaria) al suo con l’aiuto della guardia Gerolamo Venturini, detto il Rosso.

Probabilmente il conte Cagliostro, mago e occultista, conosceva la maniera di controllare le Forze della Natura ed aveva tentato di fuggire con il metodo della "morte apparente".

Nella Fortezza di San Leo c’era l’usanza di gettare i cadaveri dei detenuti comuni giù dalla torre per essere raccolti in seguito e sommariamente seppelliti il Cagliostro invece era un detenuto particolare e avrebbe avuto un diverso trattamento.

Perché aspettare la morte dell'altro detenuto? Michele Rinaldi era soltanto un "rilegato (detenuto) comune": Cagliostro avrebbe atteso di essere gettato insieme al cadavere di Rinaldi dalla torre e sarebbe scappato per sempre dopo più di cinque lunghi anni di prigionia (esattamente, quattro anni, quattro mesi e cinque giorni).

Nessuno avrebbe più trovato il suo corpo, dando così luogo a fantasie e a leggende, come se si fosse letteralmente volatilizzato.

Il conte Cagliostro, probabilmente aveva programmato tutto: la finta conversione, poi le botte del cappuccino e, infine, la catalessi, diagnosticata dal medico che lo visitò, in attesa della vera morte di Rinaldi, che già da qualche tempo agonizzava nella sua cella.

Quest’ipotesi fu citata da "La Civiltà Cattolica" nel 1879, che riportava anche la deposizione di Eugenia Tucci, leontina di circa settantotto anni, che, interrogata nel 1878, disse di aver "Inteso sempre dire dalla sua madre che il Cagliostro tentasse di strozzare un frate, che egli aveva chiesto con il pretesto di confessarsi, con l’intenzione di vestirsi dei suoi abiti e così fuggire dalla prigione".

Ciò fu scritto nel documentato in un manoscritto anonimo ritrovato e divulgato da Gian Luigi Berti: il conte Cagliostro più volte si finse morto e durava qualche tempo a starsene come senza fiato per essere sepolto e così evadere e si era allenato talmente bene per un lungo periodo tanto che ormai riusciva facilmente a tenere il proprio corpo uno stato di catalessi profonda simulando la morte, ma i medici, per farlo rinvenire, gli davano fuoco sotto la pianta dei piedi – procedura attestata dalle testimonianze dell’epoca - il che fecero per l’ultima volta.

Il testo anonimo citato nel libro di Gian Luigi Berti continua così: "Dopo questo fatto, vedendo di non poter più sfuggire la stretta del carcere, venne in tanta malinconia che alla fine di agosto 1795 fu colpito da un attacco di apoplessia che il percosse a morte".

"Dopo l’accertamento dell’avvenuta morte, il corpo del conte, calato dalle mura della Fortezza insieme a quello del Rinaldi, sarebbe sparito per sempre dalla vista dei carcerieri. Tuttavia, superato l’iniziale smarrimento dei suoi custodi, tutto fu messo a tacere da parte della Curia, e si dichiarò il conte fosse ufficialmente morto il 26 agosto 1795, tre ore dopo la mezzanotte".

Non è certo di chi fosse il corpo trasportato e sepolto dove riferisce l’Atto di Morte stilato dall’Arciprete Marini e nemmeno il bambino Perazzoni avrebbe potuto riconoscerlo perché nella lettera che il tenente Pietro Gandini al Cardinale de Zelada c’era scritto che aveva dato ordini ai suoi soldati di tenere lontano le persone.

Il testo anonimo riportato da Berti precisa che "Fu sepolto come bestia a piè del muro della torretta e vi restò fino in sino al 1797; cioè sarebbe stato sepolto in luogo diverso da quello descritto nell’Atto di Morte".

In una lettera del 4 settembre 1795, del Cav. Luigi Angiolini, Ministro del Granduca di Toscana presso la Corte di Roma, c'è scritto invece che "Quel provvido Castellano Semproni l’ha fatto seppellire in un legnaio dove gli erano sempre rubate le legna, all’oggetto che i ladri possano in avvenire avere spavento di un uomo così temuto nell’approssimarvisi".
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