MUSICA
Vulnerabile e di classe: il mondo di Luca Madonia
Arriva con quell’aura di classe che lo contraddistingue da sempre, una sorta di stile innato che potrebbe a prima vista essere scambiato per snobismo. Ma a smentire subito l’impressione contribuiscono vari particolari. Innanzitutto, la disponibilità con cui si lascia intervistare. In seconda battuta, la location che ha scelto per presentare il suo nuovo, quinto disco solista, “Vulnerabile”, l’atmosfera intima e raccolta del Teatro Micro, seminascosto luogo d’incontro e arte palermitano (in via Pagano 27). E infine, la confidenza e la sicurezza con cui Luca Madonia, ex leader dei Denovo con Mario Venuti e ora raffinata voce del cantautorato italiano, si rivolge al pubblico che per l’occasione è accorso e che fa sembrare la situazione quasi un incontro tra amici.
Sale sul palco e parla, con consumata esperienza ma anche con la massima disinvoltura, e oltre a suonare e a cantare, racconta, racconta del passato e del presente. Nella band che lo accompagna, al basso, anche un pezzo di storia dell’indie italiano: quel Fabrizio Federighi fondatore della Kindergarten, l’etichetta fiorentina che lanciò i Denovo (la più grande band siciliana di sempre) negli anni ottanta, e che ora ritrova l’amico Madonia per la produzione del suo nuovo lavoro solista. In veste di produttore esecutivo “Vulnerabile” vede invece Rolando D’Angeli con la sua label Don’t Worry. D’Angeli è un nome importante per la musica in Italia, già fautore dei grandi successi di Nek, Giorgia, Kelly Joyce, Umberto Tozzi, Amedeo Minghi, Michele Zarrillo. In sede di registrazione, invece, ha partecipato anche il vecchio compare Tony Carbone, ieri bassista della band catanese e oggi produttore tra i più richiesti e affermati.
Parlami del processo che ti ha portato a questo nuovo disco.
«Come affermo già dal titolo del disco, io mi sento vulnerabile. Anche in quest’era di superomismo dilagante io parlo della fragilità umana».
Se non sbaglio anche in “Tempi di libero rock”, il libro di Jonathan Giustini sui Denovo e la Catania rock pubblicato per Arcana Libri, fai un’affermazione sulla tua fragilità. Che ricordi hai di quel periodo?
«E’ stato un decennio senza dubbio bello. Poi sono subentrate altre esigenze, ho intrapreso una carriera solista. L’importante secondo me è comunque non tradire mai la propria identità».
Credi che ti abbia giovato nel tuo lavoro come solista il passaggio da una major come la Warner alle etichette indipendenti?
«Penso proprio di sì, perché in questo modo non ho imposizioni artistiche, non ci sono costrizioni e questo aiuta. Tiro fuori un disco solo quando ne sono convinto. Alla fine un lavoro nuovo ti porta via due anni tra scrittura, promozione e tour».
Una volta, intervistando Mario Venuti, gli chiesi inevitabilmente di parlarmi dei Denovo. Tra l’altro, mi pare che ormai abbiate definitivamente “elaborato il lutto”, tra reunion e collaborazioni. Lui mi parlò di “immaturità” della band. Mi sento di farti la stessa domanda.
«Sicuramente ci fu immaturità, ma soprattutto ci siamo trovati in mezzo a eventi che ci capitavano all’improvviso e che non sapevamo affrontare. Forse non eravamo preparati a un successo e a gestire tutte quelle situazioni. Oggi sicuramente sarebbe diverso, c’è più esperienza, più mestiere».
Come si è evoluto il tuo rapporto col pubblico? Si tratta ancora di “amore-odio”?
«Io mi sento un post-adolescente, non sopporto l’isteria collettiva, ma non sono diventato definitivamente adulto, forse perché il mestiere che faccio e che io adoro mi porta a vivere le stesse emozioni di vent’anni fa».
Tra le realtà di oggi chi ti piace?
«Apprezzo molto i Baustelle. Per quanto riguarda l’estero, i Franz Ferdinand, i Red Hot Chili Peppers. E poi gli XTC, e ovviamente quello da cui è partito tutto, i Beatles. Anche a riascoltarli oggi ti rendi conto di quanto erano avanti. Hanno inventato praticamente tutto loro».
Secondo te la scena di Catania è cambiata rispetto a qualche anno fa? C’è meno fermento?
«Qualcosa è cambiata, ma la città è viva. In realtà più che alla città io credo nei talenti, e Catania ne ha come tutte le città. Alla fine conta molto trovarsi nelle situazioni giuste per emergere. In Italia però non si punta sulla cultura, c’è troppa televisione e ormai conta più l’apparire che l’essere».
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