TEATRO
“Tutti e due o nessuno”, due esistenze indissolubilmente legate
Che Palermo negli ultimi anni abbia dato un contributo notevole all’arricchimento della scena teatrale nazionale, grazie all’affermarsi di un gruppo di attori e registi sempre più interessanti, è ormai un dato di fatto al quale la rassegna del "Palermo Teatro Festival", ospitata presso il complesso di Montevergini, appena restaurato, sta dando ulteriori conferme. In particolare, vogliamo soffermarci stavolta sullo spettacolo “Tutti e due o nessuno”, diretto ed egregiamente interpretato, in prima nazionale, da Vincenzo Ferrera e Massimiliano Geraci e prodotto dallo stesso "Palermo Teatro Festival", andato in scena sabato 28 e domenica 29 ottobre (la consulenza per la drammaturgia è di Giovanni Gebbia, le scene e i costumi sono di di Daniela Cernigliaro, l’assistenza alla creazione di Vincenzo Musso, le luci di Emanuele Noto, la fonica di Francesco Albanese). Il testo di partenza è “Emigranti”, dello scrittore e drammaturgo polacco Slawomir Mrozek, uno scritto del 1974 dallo stile asciutto e severo, basato sull’antinomia dialettica e sociale di due personaggi, un operaio e un intellettuale esule, tutti e due lontani dalla loro patria e posti di fronte alla noia del vivere.
La coabitazione tra i due non è semplice, e il secondo è costretto a sopportare i modi ruvidi, le tirchierie, la cafonaggine del compagno di stanza, condividendo un bugigattolo male illuminato dove anche la sola presenza di una bottiglia di liquore di quello buono sembra quasi esagerata. La notte di Capodanno, per antonomasia un momento di bilanci, quando, mentre ai piani superiori o per strada la gente festeggia l’arrivo dell’anno nuovo, è facile che nostalgie e amarezze possano emergere in tutta la loro drammaticità, le tensioni di questa convivenza dettata dalla necessità affiorano con virulenza. Con una tempistica perfetta, scandita dalle improvvise incursioni musicali originali eseguite dal vivo da Gabrio Bevilacqua e Domenico Argento, una banale discussione degenera. “L’intellettuale” fa notare al suo coinquilino l’inutilità del suo affannarsi a lavorare come una bestia da soma finalizzato solo all’accumulo di denaro, in vista di un suo ritorno a casa da signore, che probabilmente non avverrà mai. Strappando il velo di Maya che questi si tiene davanti agli occhi però, lo mette dinanzi all’inesorabile durezza di una vita di sacrifici, in cui il rifiuto di integrarsi non imparando neanche la lingua del luogo, perché tanto chisti un su’ cristiani, è solo una maniera per difendersi dalla certezza, forse inconsapevole, che quel viaggio di ritorno non verrà mai compiuto.
Allora, l’imprevedibile...: la ‘bestia’ improvvisamente si ribella al suo giogo, la sete di accumulo di denaro, unico modo per conquistare un riscatto sociale da assaporare tornando in Sicilia, e strappa i soldi guadagnati con fatica. È un gesto di libertà, di disobbedienza a cui il compagno non era preparato, che lo lascia spiazzato e privo della sua cavia da laboratorio, “lo schiavo perfetto”, protagonista degli appunti legati alla stesura di un saggio. Ecco che anche per lui, allora, viene meno la ragione di vita, lo scopo di un esistere da sottoscala che solo così poteva essere accettabile. I due personaggi, come Estragone e Vladimiro, i beckettiani protagonisti di “Aspettando Godot”, attendono e perseguono qualcosa che non giungerà mai: l’ideale di una salvezza, di una dignità, di un qualcosa che riempia la loro valigia di cartone, di un riscatto che potrà avvenire soltanto “per tutti e due o per nessuno”, essendo le loro esistenze ormai indissolubilmente legate e tali che l’uno rappresenta per l’altro l’antidoto alla solitudine in un mondo di non-appartenenza.
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Da questa base i due registi-attori partono per tracciare una narrazione intensa, serrata, basata sull’incalzare di dialoghi in cui i registri, dal comico al tragico, dall’ironico al commovente, si alternano quasi spiazzando lo spettatore. I due Lui che si fronteggiano provengono entrambi dall’entroterra siculo, come è facile dedurre dal pesante accento madonita dell’operaio, interpretato con grande efficacia da Geraci. Questi si presenta con il vestito pulito della domenica e le scarpe ‘internazionali’ di cuoio, la mise indossata per andare a farsi un giro in stazione, un luogo dove, senza bisogno di pagare, si può assistere allo sfilare di una varia umanità, si possono tessere mille storie immaginarie, e soprattutto ci si può non sentire stranieri, in mezzo agli stranieri. L’altro, invece, il personaggio di Ferrera, da questi interpretato con un’intensità trascinante, è un uomo colto, forse un anarchico costretto ad abbandonare il proprio paese per motivi politici, sempre chino sul suo taccuino a prendere appunti, a leggere e a scrivere. La coabitazione tra i due non è semplice, e il secondo è costretto a sopportare i modi ruvidi, le tirchierie, la cafonaggine del compagno di stanza, condividendo un bugigattolo male illuminato dove anche la sola presenza di una bottiglia di liquore di quello buono sembra quasi esagerata. La notte di Capodanno, per antonomasia un momento di bilanci, quando, mentre ai piani superiori o per strada la gente festeggia l’arrivo dell’anno nuovo, è facile che nostalgie e amarezze possano emergere in tutta la loro drammaticità, le tensioni di questa convivenza dettata dalla necessità affiorano con virulenza. Con una tempistica perfetta, scandita dalle improvvise incursioni musicali originali eseguite dal vivo da Gabrio Bevilacqua e Domenico Argento, una banale discussione degenera. “L’intellettuale” fa notare al suo coinquilino l’inutilità del suo affannarsi a lavorare come una bestia da soma finalizzato solo all’accumulo di denaro, in vista di un suo ritorno a casa da signore, che probabilmente non avverrà mai. Strappando il velo di Maya che questi si tiene davanti agli occhi però, lo mette dinanzi all’inesorabile durezza di una vita di sacrifici, in cui il rifiuto di integrarsi non imparando neanche la lingua del luogo, perché tanto chisti un su’ cristiani, è solo una maniera per difendersi dalla certezza, forse inconsapevole, che quel viaggio di ritorno non verrà mai compiuto.
Allora, l’imprevedibile...: la ‘bestia’ improvvisamente si ribella al suo giogo, la sete di accumulo di denaro, unico modo per conquistare un riscatto sociale da assaporare tornando in Sicilia, e strappa i soldi guadagnati con fatica. È un gesto di libertà, di disobbedienza a cui il compagno non era preparato, che lo lascia spiazzato e privo della sua cavia da laboratorio, “lo schiavo perfetto”, protagonista degli appunti legati alla stesura di un saggio. Ecco che anche per lui, allora, viene meno la ragione di vita, lo scopo di un esistere da sottoscala che solo così poteva essere accettabile. I due personaggi, come Estragone e Vladimiro, i beckettiani protagonisti di “Aspettando Godot”, attendono e perseguono qualcosa che non giungerà mai: l’ideale di una salvezza, di una dignità, di un qualcosa che riempia la loro valigia di cartone, di un riscatto che potrà avvenire soltanto “per tutti e due o per nessuno”, essendo le loro esistenze ormai indissolubilmente legate e tali che l’uno rappresenta per l’altro l’antidoto alla solitudine in un mondo di non-appartenenza.
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