CINEMA E TV
Tu chiamami Peter: la solitudine del clown
Tu chiamami Peter (The Life and Death of Peter Sellers)
U.S.A. / Regno Unito, 2004
Di Stephen Hopkins
Con Geoffrey Rush, Charlize Theron, Emily Watson, Miriam Margolyes, Peter Vaughn, Sonia Aquino, John Lithgow, Stanley Tucci, Stephen Fry
Se il Martin Scorsese di “The Aviator” si fosse preoccupato più di tanto nel cercare i sosia di Hughes e company, i volti di oggi per le anime di ieri, non avrebbe certo realizzato il suo film. Di certo, il regista Stephen Hopkins (quello di “Spiriti nelle tenebre” e “Lost in space”) per il casting di “Tu chiamami Peter”, ennesimo biopic dell’anno, sulla vita e la morte del camaleontico Peter Sellers, il problema se lo è posto fino ad un certo punto. Il film è una produzione televisiva HBO, selezionata per il concorso di Cannes dell’anno scorso (chissà con quale logica!). Inoltre, la sua mediocre biografia ottiene, all’inizio del 2005, il Golden Globe come miglior film per la televisione mentre l’attore Geoffrey Rush viene premiato per il ruolo principale. Come ha giustamente osservato Emanuela Martini, l’interpretazione di Rush nei panni di Peter Sellers è un esempio di “necrofilia”: il protagonista di “Shine” si è calato nel proprio ruolo non solo fisicamente, arrivando persino ad imitare, con perfezionismo da Actor’s Studio, le tante voci inventate da Sellers per i suoi infiniti caratteri. La pellicola prende le mosse nei primi anni ’50, a Londra, quando il grande Peter comincia a diventare un personaggio popolare grazie alla radiofonica serie “The Good Show”, insieme a Spike Milligan, Harry Secombe e Michael Bentine, suoi compagni di quei primi anni. E’ il talento da trasformista a contraddistinguere, fin da allora, il geniale comico, a rendere unico il suo stile ed irresistibile la sua capacità alla Fregoli.
E in una scena mentre si discute di uno dei titoli, ecco che “The Pink Panther strikes again” , grazie alle imprecisioni del doppiaggio nostrano diventa “La Pantera Rosa colpisce ancora”, anziché “La Pantera Rosa sfida l’ispettore Clouseau”. A Stephen Fry spetta il compito d’interpretare il chiromante Maurice Woodruff, quello con cui Peter si confidava. Non si fa cenno al capolavoro “Hollywood Party” e il capitolo “Lolita” è ignorato: la sceneggiatura di Christopher Markus e Stephen McFeely, derivata dalla biografia di Roger Lewis, sembra concentrarsi sulle pene di Sellers cardiopatico (con un corollario di altre banalità da gossip) sulle sue nevrosi e molti infarti subiti prima di morire a soli 54 anni, su una certa cattiveria infantile che condizionò la sua vita infelice, conducendolo alla solitudine e all'autodistruzione. Con un banale meccanismo narrativo, simile a quello usato per il biopic “De-Lovely” (il palcoscenico di un teatro per rievocare la vita di un Cole Porter invecchiato, seduto in sala), qui è il set ad essere utilizzato come spazio scenico generatore delle vicende private, dove il gioco da cinefili consiste nel riconoscere l’efficacia mimetica di Rush travestito da Sellers travestito da Clouseau, da Stranamore, da Chance il giardiniere, etc. Ben poco per un biopic d’impianto televisivo con un finale patetico dove lo pseudo- Sellers guarda da solo i filmini dei genitori e cammina sulle acque nei panni del personaggio di “Oltre il giardino”. L’assunto sta nel vecchio adagio sul clown triste e il problema nella piattezza scandalosa della regia di Hopkins. Dai biopic made in USA, del resto, c’è da aspettarselo.
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