CINEMA E TV
"Superman returns", mitologia di un eroe
Superman Returns
U.S.A. 2006
di Brian Singer
con Brandon Routh, Kate Bosworth, Kevin Spacey
Il mito è eterno, immutabile. E Superman non fa eccezione. Nato nel 1938, l’uomo d’acciaio simbolizzò al meglio l’inarrestabile progressismo della società industriale, l’incarnazione di deliri d’onnipotenza, figli dell’imperialismo americano. Passano le epoche e le ideologie, ma l’iconografia dell’eroe non è intaccata. Superman, a differenza di altri protagonisti dei fumetti recentemente adattati per il grande schermo, non si adegua all’epoca post-moderna, perché vive nella dimensione atemporale del racconto mitico (che non a caso è espressamente citato in un dialogo del film).
Più che una storia, un vero e proprio archetipo narrativo (e cristologico), rigorosamente scandito da sequenze emblematiche e imprescindibili: la (rinnovata) genesi dell’eroe (Superman, dopo aver cercato il suo pianeta natale, torna sulla Terra precipitando nuovamente nella fattoria dei genitori adottivi), la vestizione con l’immortale calzamaglia celeste e il mantello fiammante, l’epifania dei superpoteri (sollevare aeroplani, piegare proiettili con il proprio corpo), l’idillio amoroso ad alta quota consumato con Lois Lane, la caduta a causa della kryptonite, il sacrificio salvifico, la risurrezione messianica.
Eppure qualche aggiornamento è stato reso necessario da un’epoca come la nostra in cui non è possibile esimersi dal discorso politico. Così Clark Kent, facendo zapping alla tv, è bombardato da immagini di attentati terroristici e di guerriglie in paesi arabi. E nelle due grosse scene di panico collettivo del film – l’incidente sull’aereo e il crollo dei grattacieli a Metropolis – il pensiero va inevitabilmente a quei telegiornali.
Se nel 1938 Superman catalizzava le frustrazioni nei confronti delle istituzioni incapaci di far fronte al gangsterismo e di garantire la sicurezza dei cittadini, nel 2006 le sfiducie sono rivolte alla fallimentare amministrazione Bush e alla fragilità degli equilibri internazionali. Per far fronte alla tragedia bisogna rimboccarsi le maniche in prima persona e tramutarsi in nuovi eroi metropolitani. I Supermen oggi sono i pompieri che soccorsero le vittime dell’11 Settembre, non a caso oggetto di mitizzazione in un altro poderoso affresco d’imminente uscita, “World Trade Center” di Oliver Stone.
Ma l’aspetto su cui Brian Singer concentra maggiormente lo sguardo non è di natura politica, bensì umana e familiare. Paradossalmente, tra il gigantismo degli effetti speciali e l’afflato epico della composizione, si finisce per dar più risalto al “man”, che al “super”. La frase leitmotiv del film è «il figlio diventa padre e il padre diventa figlio», pronunciata all’inizio dal papà di Superman e in conclusione dall’eroe stesso, rivolgendosi al bambino di Lois che (sembra) aver ereditato da lui poteri sovraumani.
È in questo scambio reciproco di ruoli, in questa ridefinizione delle identità parentali e riformulazione del concetto di famiglia che ruota tutto “Superman Returns”. Insomma, nonostante l’origine monodimensionale, l’uomo di Krypton risulta qui essere più sfaccettato di quanto apparentemente possa sembrare, quasi quanto i cristalli del suo pianeta natale, che con le loro caleidoscopiche geometrie s’impongono come figura dominante del film.
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