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Non bussare alla mia porta, lungo i sentieri della nostalgia

  • 4 ottobre 2005

Non bussare alla mia porta (Don’t come knocking)
Germania/U.S.A., 2005
Di Wim Wenders
Con Sam Shepard, Jessica Lange, Tim Roth, Gabriel Mann, Sarah Polley, Fairuza Balk, Eva Marie Saint

Wim Wenders riparte da “Paris, Texas”, da quelle atmosfere tipicamente americane che hanno radici in un passato non solo cinematografico. Ritrova Sam Shepard il commediografo (un attore con cui aveva già condiviso l’epica e malinconica visione di un’America dai paesaggi mitologici e struggenti, di un’America malata però ancora capace di elaborare il proprio riscatto).
Presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes, “Non bussare alla mia porta” arriva dopo “La terra dell’abbondanza”, visto a Venezia lo scorso anno, dove Wenders mostrava le paure di un paese segnato dalla fatidica data dell’11 settembre, con una finale incursione sul Ground Zero che ci ha lasciati attoniti. Era un film convincente e solido, e il regista tedesco sembrava aver ritrovato il piglio migliore del suo cinema, una forza espressiva che da un po’ di tempo sembrava attenuata (ad eccezione dei due documentari, “Buena Vista Social Club” e “The soul of a man”). Con quest’ultimo, il sentimento della nostalgia prende il sopravvento: “Non bussare alla mia porta” è bellissimo e commovente, un poemetto visivo sull’amore e sulla solitudine, un “Viale del tramonto” in chiave epica, dove al posto di Gloria Swanson c’è l’attore di film western Howard Spence (Sam Shepard), anch’esso prigioniero del suo passato, immerso nei magnifici paesaggi del Montana e del Nevada. Howard porta in viso i segni della propria sofferenza e così, durante le riprese di uno dei suoi filmetti alimentari, di punto in bianco abbandona il set. Sesso, droga e alcol lo hanno consumato e l’uomo prosegue il suo viaggio a ritroso nel tempo.

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Prima di tutto, va ad incontrare la madre che non vede da trent’anni interpretata dalla leggendaria Eva Marie Saint. Quest’ultima gli racconta la storia di una donna, da lui un tempo amata, che un bel giorno le aveva telefonato per annunciare la nascita di un figlio. La possibile paternità costringe Howard a mettersi in discussione, costringendolo alla ricerca dell’antico amore, Doreen (una magnifica Jessica Lange che non ha perso, nonostante le rughe, la sua giovanile intensità). La donna gestisce un locale e ha un figlio, Earl (Gabriel Mann) che, con le sue canzoni, intrattiene i clienti ubriaconi. Alla vicenda si aggiunge una ragazza, Sky (Sarah Polley), che vaga lungo il Middle West portandosi dietro le ceneri della madre, e anche lei sembra essere frutto di una relazione di Howard con una delle tante donne amate in gioventù. A cercare l’uomo c’è anche Sutter (un bravissimo Tim Roth), un assicuratore alquanto bizzarro assoldato dalla produzione del film abbandonato. In “Non bussare alla mia porta” c’è tutto Wenders e la sua cultura visiva: la scenografia richiama alla mente l’aspro, trasfigurato realismo dei quadri del pittore americano Hopper (al quale il regista si è più volte ispirato in passato) e i set naturali trasudano di riferimenti letterari, come la cittadina di Butte ribattezzata Poisonville da Dashiell Hammett in uno dei suoi capolavori, “Raccolto rosso”.

Da rimarcare pure la colonna sonora country- rock che è una autentica delizia per le orecchie. Dopo che il chitarrista Ry Cooder, storico collaboratore di Wenders, è rimasto sedotto dalle sonorità cubane, è il texano T-Bone Burnett a scrivere, a produrre ed arrangiare la musica di questo film, servita dalla bella voce di Andrea Corr, leader del complesso "The Corrs", che interpreta insieme a Bono degli "U2" la canzone dei titoli di coda. Sceneggiato da Sam Shepard con Wenders, “Non bussare alla mia porta” è un film sulla morte di un genere, il western, una storia che parla di paternità e di riconciliazione, con un finale a doppia lettura dove si alternano i motivi della speranza e della disillusione. Il futuro è incarnato dalle due figure adolescenziali: Earl è un ragazzo tentato dal desiderio di riconoscere il padre, ma ancora mosso dal rancore e dall’amarezza, mentre la ragazza, Sky, sembra vinta da una solitudine incolmabile che la spinge ad una incessante ricerca degli affetti perduti. Più volte, nel corso del film, viene raccontato il senso d’insicurezza che travolge tutti: emblematica è quella scena nella quale una giovane attrice esita a recitare le sue battute di fronte ad una controfigura, come se anche nella finzione (e quindi, nel cinema) si evidenziasse quella ricerca di verità che è l’ossessione dei filmaker di razza (e Wenders lo è, a tutto tondo!). Fa piacere, poi, rivedere la coppia ormai mitica, Shepard – Lange (marito e moglie nella vita) che non lavoravano insieme dai tempi di “Country” di Pearce. Un altro motivo per non perdere questa pellicola che rinnova i fasti di una visione del mondo ad uso e consumo dei cinefili, visione che oggi sembra destinata a tramontare.

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