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"Munich", la minaccia della Storia

  • 20 febbraio 2006

Munich
U.S.A., 2005
di Steven Spielberg
con Eric Bana, Daniel Craig, Hanns Zischler, Mathieu Kassovitz, Ciaràn Hinds, Geoffrey Rush, Lynn Cohen

Non vi sembri strano che all’inizio di un film-realtà come questo si cominci rintracciando un’autocitazione: la locandina di questo “Munich” ricorda quella di un altro celebre film spielberghiano, “Il colore viola”. Nella prima si nota l’attore Eric Bana seduto con tra le mani una pistola mentre nell’altra immagine la riconoscibile sagoma di Whoopi Goldberg è distesa su una sedia a dondolo e lo sfondo è naturalmente viola. A parte le citazioni pittoriche che vi risparmiamo, questa analogia ci dice che si tratta di due film profondamente, irresistibilmente americani. Spielberg è il Frank Capra dei nostri tempi, capace di evocare la realtà trasformandola in mito, racconto puro che spesso diviene cinema purissimo. Poi c’è l’impegno: la fiamma di “Schindler’s List” è destinata a non spegnersi, scommessa sulla memoria come valore proiettato nel futuro, speranza nel miracolo di un mondo rigenerato dove sia possibile non spargere altro sangue. Con “Munich”, Spielberg rievoca all’americana una delle tante tragedie che hanno segnato la Storia contemporanea, quella dei giochi olimpici a Monaco nel lontano settembre del 1972. Erano tempi duri (un po’ come i nostri), nei quali il desiderio di pace cozzava con le ragioni di Stato imperanti, i tempi del Vietnam e delle piccole grandi guerre d’indipendenza, quando in Palestina due popoli dalla storia dolorosa avevano già imparato a fronteggiarsi. Dopo l’incipit esplicativo, Spielberg ci porta nel cuore della vicenda: un gruppo di otto giovani palestinesi, che si fanno chiamare con il sinistro nome di “Settembre Nero”, scavalcano le mura del villaggio olimpico di Monaco, prendono in ostaggio la squadra olimpica israeliana e uccidono due atleti.

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Il blitz dell’esercito tedesco provoca un effetto a catena: altri membri della squadra muoiono assieme a cinque terroristi. Un epilogo tragico, dunque, che impressiona il mondo. Spielberg ci mostra le foto di repertorio degli undici atleti-martiri (e qui ci viene in mente il finale commovente di “Schindler’s List”) ma quello che vuole raccontarci è il dopo-evento. Arriviamo a Gerusalemme, quando l’israeliano Avner Kaufmann (Eric Bana), giovane membro del Mossad, viene ingaggiato dal primo ministro Golda Meir (Lynn Cohen) per una delicata missione che consiste nel far fuori gli undici dirigenti palestinesi ritenuti i mandanti dell’azione terroristica. Avner è in squadra con altri quattro uomini: il sudafricano Steve (Daniel Craig), il tedesco Hans (Hanns Zischler), il belga Robert (Mathieu Kassovitz) e l’inglese Carl (Ciaràn Hinds), ognuno con il suo carattere e la sua specializzazione. L’ufficiale che segue le operazioni (Geoffrey Rush) ricorda all’uomo che la sua identità può ritenersi cancellata e che la sua famiglia (la moglie è in dolce attesa) non lo vedrà per molto tempo. Il tutto nella migliore tradizione dell’action-movie. Come ha giustamente osservato Emanuela Martini, “Munich” può ritenersi figlio di “Duel”. Spielberg gira un thriller dal ritmo serrato, con un retrogusto da cinema civile di cui si sono nutriti, negli anni settanta, registi come Pollack, Frankenheimer, Pakula e Costa-Gavras. La fotografia dell’abituale collaboratore Janusz Kaminski fa davvero miracoli nel creare le sgranate e flagranti ombrosità di un film ad alto livello spettacolare, con location strategiche a Parigi e Londra attraverso Roma, Ginevra, Beirut, e con una perfetta ricostruzione d’ambiente curata dallo scrupoloso scenografo Rick Carter. Derivato dal libro “Vengeance” di George Jones (la bellissima sceneggiatura è stata scritta dal drammaturgo Tony Kushner, quello di “Angels in America”, assieme a Eric Roth), il film sorprende per alcune sequenze d’azione davvero memorabili.

Degna dell’asprezza di un Don Siegel, ma con una suspense alla Brian De Palma, è quella del telefono con bomba incorporata: una minaccia di esplosione al cardiopalma che coinvolge la figlia di un leader palestinese. Non manca una realistica sparatoria alla “Salvate il soldato Ryan” immersa in un’atmosfera che ricorda il miglior William Friedkin. E se volete c’è anche la secchezza di Fuller in questo esempio di cinema-cinema. Non possiamo che sostenere uno Spielberg così, noi che siamo suoi fans e lo abbiamo seguito anche nelle sue prove più impervie. A lui è riuscito quello che a pochi altri riesce: rileggere l’America e il mondo, mettere in campo i grandi temi dell’etica e della Storia mantenendo saldo il rapporto con l’immaginario cinematografico, con il linguaggio dei generi e dei relativi stereotipi. Anche “Munich” è un film “diverso” perché si avvicina con intensità alla tradizione dei classici. In questo caso, protagonista è un uomo che si ritrova ad essere straniero in patria (come il Victor Navorsky di “The Terminal”), che cerca di fare i conti con la memoria che appartiene a lui come al suo popolo, prigioniero di un mondo ostile e dilaniato dai conflitti. E’ l’incubo del vivere braccati: forse davvero la metafora di “Duel”, del camion incombente con la sua minaccia mortuaria, rappresenta l’angoscioso nodo di un secolo trascorso che si è rovesciato nel nostro. Forse rappresenta davvero il nostro destino che, però, non ci impedisce di sperare.

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