TEATRO
"Luigi che sempre ti penza": la storia di un Gastarbailter
È uno degli appuntamenti teatrali più attesi tra quelli presenti nel cartellone di Anteprima(vera) di quest’anno. Debutta a Palermo “Luigi che sempre di penza. Piccole cronache di un emigrante (in sette movimenti)”, spettacolo di e con Gigi Borruso in scena al Teatro Nuovo Montevergini, in piazza Montevergini, da venerdì 30 marzo a domenica 1 aprile, ogni sera alle 21,15 (ingresso 5 euro). Lo spettacolo, prodotto dalla Compagnia dell’Elica di Palermo e recentemente segnalato al Premio Tuttoteatro.com “Dante Cappelletti” 2006, ricostruisce, sotto forma di monologo, oscillando tra verità storica e invenzione fantastica, le esperienze di Luigi, contadino siciliano emigrato in Germania negli anni ’60. Nella costruzione delle vicende e dei pensieri del personaggio, l’autore inventa e immagina, ma attinge anche alle testimonianze raccolte e le lettere di emigranti tratte da Entromondo di Antonio Castelli che hanno reso possibile una ricostruzione di lingua e di umori contadini ormai prossimi all’estinzione.
E se Luigi parla una lingua estranea, è solo perché il suo personaggio racconta l’esilio e l’estraneità che l’esilio comporta. La sua lingua si trascina fragilmente tra il siciliano contadino, l’italiano e il tedesco, si muove incerta tra la lingua tipica della terra e della famiglia e quella dei media, della società e del lavoro. Luigi parla con i fantasmi, si prende cura delle immagini dei suoi cari quasi fosse un devoto adorante le immagini sacre; danza con le parole, ebbro di quel delirio che spesso lo porta a vaneggiare. La sua storia e il suo cammino in sette movimenti sono pensati come graduale svelamento interiore: si muove tra desideri di riscatto e un nuovo sguardo sul reale, giocando con il teatro per far luce sulla propria esistenza e l’universale. Se solo conoscesse le parole, forse racconterebbe al mondo l’irreparabile condizione di chi ha scelto di emigrare o del senso della perdita a cui ogni uomo è destinato all’interno del suo animo.
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In una note, Borruso scrive «Ho immaginato lo sguardo di quest’uomo, la percezione di sé in terra straniera. L’ho immaginato nella baracca del cantiere in Germania, intento a rimembrare a voce alta i sogni della notte trascorsa, a scrivere alla sua famiglia, impegnato inconsapevolmente a definire un’identità messa in crisi dalla paradossale condizione che sperimenta ogni emigrante». Oltre che aderire ad un certo vero storico, il personaggio di Luigi appare quindi il fantastico frutto di diverse suggestioni trattate in modo libero e costantemente rapportate alla contemporaneità. L’uomo è un “Gastarbaiter”, parola con cui la Germania dell’epoca appellava i lavoratori ospiti, e che presto divenne, non senza valore dispregiativo, sinonimo di Italiano. Il modo in cui il regista si accosta al tema attuale dell’emigrazione, ponendo un argomento per certi versi abusato in una dimensione quasi fiabesca, è del tutto singolare e coerente alla sua scelta di coniugare in teatro coscienza etica e incanto fantastico. Sulla scena aleggia un’atmosfera di stupore mitico, suscitato soprattutto da un linguaggio ricreato a partire dalle lettere dei migranti, dunque concreto e telegrafico, lontano dalle normali abitudini linguistiche. E se Luigi parla una lingua estranea, è solo perché il suo personaggio racconta l’esilio e l’estraneità che l’esilio comporta. La sua lingua si trascina fragilmente tra il siciliano contadino, l’italiano e il tedesco, si muove incerta tra la lingua tipica della terra e della famiglia e quella dei media, della società e del lavoro. Luigi parla con i fantasmi, si prende cura delle immagini dei suoi cari quasi fosse un devoto adorante le immagini sacre; danza con le parole, ebbro di quel delirio che spesso lo porta a vaneggiare. La sua storia e il suo cammino in sette movimenti sono pensati come graduale svelamento interiore: si muove tra desideri di riscatto e un nuovo sguardo sul reale, giocando con il teatro per far luce sulla propria esistenza e l’universale. Se solo conoscesse le parole, forse racconterebbe al mondo l’irreparabile condizione di chi ha scelto di emigrare o del senso della perdita a cui ogni uomo è destinato all’interno del suo animo.
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