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Le chiavi di casa: una storia dura diventa poesia

Il tentativo di trasformare in poesia e partecipazione emotiva dello spettatore una storia dura, un pasticcio esistenziale

  • 11 ottobre 2004

Le chiavi di casa
Italia, Francia, Germania 2004
Di Gianni Amelio
Con Kim Rossi Stuart, Charlotte Rampling, Andrea Rossi, Alla Faerovich, Pierfrancesco Favino

Un mondo deserto, popolato di rari fantasmi. Un padre ritrovato, un figlio che non sa di questo padre, e che probabilmente non prenderà mai coscienza del suo stato. Atmosfere tra Wenders e Bergman, tra una Berlino muta e ferma ed una improduttiva gita in Norvegia, alla ricerca di una piccola pen-pal del ragazzo. Durante un controllo ospedaliero, tanto rigoroso e affaticante quanto inutile, almeno a giudicare dalle condizioni di disabilità di Paolo, la coscienza di Gianni, il padre ritrovato, viene messa a dura prova dall’incontro con una madre, la cui figlia è ricoverata nello stesso ospedale. In fondo la donna, interpretata da una puntuale Charlotte Rampling, non è altro che lo specchio in cui si riflette la coscienza bugiarda di Gianni, che inizialmente nega la propria paternità, salvo poi confessare e svelarsi. La donna ad un certo punto dice che ad occuparsi dei figli disabili sono sempre solo le madri, che si fanno carico di questo sporco lavoro segreto, e che trasformano in ragione di vita quello che i padri invece cercano di ignorare, anzi cercano di negare quasi, scusandosi perfino con la società per il disturbo derivante da un bambino diverso, imperfetto.

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Il tentativo di trasformare in poesia e partecipazione emotiva dello spettatore una storia dura, un pasticcio esistenziale, riesce - a mio giudizio - solo parzialmente a Gianni Amelio, regista de “le chiavi di casa”. Infatti il film è troppo rarefatto, si impernia solo sul difficilissimo rapporto tra un genitore che non ha mai voluto essere tale ed un figlio che ha conosciuto altri genitori, gli zii materni, perché la mamma è morta dandolo alla luce, ed a quelli è affezionato. Il protagonista maschile peraltro si muove in un ambiente che non conosce, distaccandosi a poco a poco dalla realtà che consiste in una casa, una moglie, un bimbo neonato, ed in questo spaesamento si ritaglia la recitazione di Kim Rossi Stuart, un po’ a disagio in un ruolo che non è quello congeniale ad un belloccio come lui. Lo spunto alla pellicola viene dal libro di Giuseppe Pontiggia “nati due volte”, che viene anche messo nelle mani della Rampling, anche se non ne ricalca la storia. Se proprio devo essere sincero, non si capisce se il regista voleva attirare l’attenzione sulle tematiche della disabilità o su quelle della difficoltà delle famiglie ad accettarla e a gestirla, e non sono riuscito ad appassionarmi o a commuovermi, nonostante io non sia un cuore di pietra e invece sia molto propenso a dare una strattonata ai miei sentimenti quando vado al cinema e non disdegno la secrezione di qualche lacrimuccia, se serve.

Però può darsi che io non ne abbia capito niente, e che magari al pubblico piacerà, anche se i brandelli di frasi delle persone che intasavano l’uscita del cinema, stasera, mi facevano capire che in fondo non si poteva dire che non gli fosse piaciuto, ma neanche che lo avessero gradito, e gli sguardi tendevano a sfuggire quando la domanda “ ma ti è piaciuto?” era rivolta da chi era stato seduto due ore nella poltroncina accanto. Per finire, il bambino, Andrea Rossi, interpreta perfettamente se stesso, ed è l’unica cosa-credo-da salvare in tutto il film.

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