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La mafia degli spettri

  • 5 maggio 2006

BITTERSWEET LIFE (Dal kom han in-saeng)
Corea del Sud, 2005
Di: Kim Jee-woon
Con: Lee Byung-hun, Kim Young-chul, Shin Mina, Hwang Jung-min, Kim Roi-ha, Moon Jung-hyuk, Lee Ki-young, Oh Dalsoo, Jin Gu, Kim Hae-gon

La cinematografia sudcoreana, almeno fino ad oggi, costituisce un esempio per tutti coloro che si ostinano ad amare il cinema. Lo dimostrano ampiamente i film di Kim Ki-duk o di Park Chan-wook (quello di “Old Boy” e dell’ultimo “Lady Vendetta”). Ma sono numerosissimi gli altri registi di questa feconda generazione di talenti che ancora non sono riusciti ad avere visibilità sui nostri schermi. Uno di questi è Kim Jee-woon di cui abbiamo visto “Two Sisters”, un horror di impeccabile fattura, di una encomiabile eleganza visiva che, però, alla lunga risultava di maniera. Diciamo pure che l’episodio “Memories”, del trittico “Three”, lo si può recuperare in dvd mentre “The Foul King” e “The Quiet Family” sono da noi ancora inediti. Kim Jee-woon è un regista a cui piace giocare con i generi cinematografici: “Two Sisters” è un classico esempio di horror che strizza l’occhio ai contemporanei “The Eye” o della saga di “The Ring”.

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“Bittersweet Life”, il suo ultimo film presentato fuori concorso nell’edizione di Cannes dello scorso anno, è un noir che guarda al passato, lirico e violento, dei maestri che di questo genere hanno fatto un’arte, come Jean-Pierre Melville e John Boorman. E viene in mente, in particolare, il Boorman del capolavoro “Senza un attimo di tregua”, un autentico gioiello per cinefili con un gigantesco Lee Marvin. La trama è presto detta. Sun-woo (Lee Byung-hun) è l’efficiente manager di un albergo di lusso, di cui ben presto si svela il segreto: il suo è un lavoro di copertura, ed egli è in realtà il braccio destro di Kang (Kim Young-chul), uno dei potenti boss mafiosi del posto. Questi ha una giovane compagna di nome Hee-soo (Shin Mina) per la quale nutre una eccessiva gelosia, convinto che lei lo tradisca. Per questo, egli ordina a Sun-woo di pedinarla, di scoprire se l’infedeltà non è frutto delle sue visioni. Per il giovane manager-gangster comincia una nuova missione: mentre segue Hee-soo in tutti i suoi spostamenti, egli si accorge che davvero qualcosa non quadra. La donna del boss ha un’amante, Sun-woo irrompe nella casa di lei e la coglie in flagrante. Però, anziché agire come gli è stato ordinato, esita per un momento e istintivamente la lascia libera, forse intenerito dalla bellezza di Hee-soo, come omaggio alla sua giovinezza. L’ira di Kang si scaglia allora violentemente contro Sun-woo, provocando una guerra senza esclusione di colpi, dagli esiti paradossali ed imprevedibili.

Kim Jee-woon è un virtuoso della macchina da presa, la regia di “Bittersweet Life”, pur velocissima, non lascia nulla al caso, è talmente stilizzata da risultare geometrica (la sequenza di Sun-woo che penetra nella casa della donna è di una simmetria impressionante). Il film ha il ritmo di una ballata alla Peckinpah con tanto di bagno nel sangue, dove le precarietà psicologiche la fanno da padrone, sfidando il senso di realtà. Il giovane gangster si trova coinvolto nell’irrefrenabile delirio di un universo orrendo dove una donna è in grado di mutare gli eventi interiori e non, dove i carnefici sono vittime e viceversa, dove imperano le leggi spietate della vendetta e del sangue (quelle del boss Kang). Non mancano le scene ellittiche, capaci di richiamare alla mente atmosfere da horror postmoderno, come la sequenza dove Sun-woo viene sepolto vivo nella terra bagnata da una pioggia infinita, per poi resuscitare in puro stile “Kill Bill”. Kim Jee-woon non fa uso del ralenti come John Woo, il suo è un cinema analitico e tagliente che esamina il tormento psicologico dei suoi personaggi perennemente in bilico tra la vita e la morte.

Le parti più virtuosistiche del film (come quella esplosione di pistolettate sul finale) rivelano in Kim Jee-woon il talento di un autore che vale la pena di seguire, perché è capace di sedurre, e di attivare quelle trasfigurazioni che nel cinema di genere funzionano sempre. Trasformare la realtà nel suo contrario, dare un respiro metafisico alla trama, donare immaterialità ai suoi personaggi (come accade in “Two Sisters”). Così “Bittersweet Life” ci appare come una storia di fantasmi tormentati, che popolano i bassifondi remoti (e rimossi) della società, che di giorno indossano le loro maschere di perbenismo e di notte si sfidano nell’immaginifica arena del Mito Negativo, quel mito di cui si nutrono alcuni dei migliori film della nostra vita.

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