ATTUALITÀ
La "Falcone" via dallo Zen? Se la scuola si arrende
Cosa succede se l'unica via d'uscita per fuggire ai raid vandalici e alla devastazione è quella di spostare la scuola "Falcone" nel cuore dello Zen altrove?
Cosa succede se la scuola si ferma? Se chi ha lottato fino a ieri anche solo per strappare uno straccio di normalità - presidi, insegnanti, famiglie, studenti - alza le braccia in segno di resa? Se ad averla vinta è la criminalità, qualunque nome le si voglia dare? Se i raid vandalici, e la devastazione, e i danneggiamenti, non si fermano davanti a niente e a nessuno? E cosa succede se questo accade nel pieno del campo di battaglia, in un quartiere come lo Zen di Palermo, dove "scuola" non è solo un banco davanti alla lavagna, nè solo un libro di testo o una pagella da consegnare, ma soprattutto presidio di legalità, lotta antimafia, alternativa sana ad un mondo malato?
Succede, forse, quello che sta accadendo alla scuola "Giovanni Falcone", reduce dall'ennesimo raid vandalico della sua storia. Non uno dei tanti, però, perchè stavolta si è alzato il tiro. Non più solo le aule, i bagni, la palestra. Adesso la devastazione ha toccato il cuore stesso della scuola, gli uffici della presidenza e della direzione amministrativa letteralmente saccheggiati dai vandali, locali a soqquadro, armadi e scrivanie svuotati, tutti i computer rubati (e con essi il loro contenuto), documenti riservati spariti. E poi, l'ultima beffa: il circuito di videosorveglianza completamente distrutto. Come dire "qui entriamo quando e come vogliamo".
E non c'è telecamera che possa fermarci. È proprio questo che accade, e fa paura: non solo per i danni materiali, cui occorrerà porre rimedio, o per la sospensione delle lezioni per gli studenti della scuola media (del resto senza computer l'attività scolastica è di fatto alla paralisi), ma soprattutto per il senso di impotenza e di resa che questo episodio lascia dietro di sè. Il sospetto, inconfessabile, che nulla di tutto quel che è stato fatto possa bastare ad arginare la violenza. Le battaglie per la legalità. I progetti di inclusione sociale. La creazione di strutture sportive all'interno della scuola.
Lo stesso sistema di videosorveglianza che il preside Domenico Di Fatta è riuscito a ottenere dopo tanta ostinazione e fatica e fronteggiando anche gli ostacoli più ardui (primo tra tutti quello della cronica carenza di fondi). Persino, di recente, la visita del ministro della pubblica istruzione Francesco Profumo, lo scorso 25 febbraio; una visita salutata con speranza da docenti e famiglie, per testimoniare con forza la presenza dello Stato in una scuola che è stata a lungo, e per molti versi, abbandonata dalle istituzioni. E se tutto questo non bastasse? Se non potesse bastare mai?
È lo stesso dirigente scolastico a temerlo: «Sono deluso, stanco - dice Domenico Di Fatta questa mattina -. Comincio a chiedermi che senso abbia tenere aperto qui questo istituto: non intravedo nessuna via d'uscita se non quella di spostare altrove questa scuola. È anche diseducativo verso i ragazzi che continuano a vedere demolita ogni alternativa possibile». L'alternativa che scompare. L'alternativa che muore. Ecco perchè ci appare spaventoso quello che accade alla scuola Falcone. Perchè ci sembra riveli uno dei volti più oscuri e indicibili di questa città e di questo Paese: l'incapacità - 20 anni dopo le stragi e nonostante fiumi di inchiostro e dichiarazioni di intenti e i protocolli di intesa e i milioni spesi in progetti per la legalità - di proteggere luoghi e persone che pure rappresentano, per il fatto stesso di esistere e per il lavoro che ogni giorno svolgono, il più autentico presidio di legalità e di antimafia.
Cosa succede se la scuola si ferma, se la scuola si arrende? Cosa succede se la scuola chiude, allo Zen come in una qualunque delle periferie o dei quartieri più a rischio d'Italia? Cosa succede se, come suggerisce oggi il preside avvilito e deluso, l'unica via d'uscita per fuggire ai raid vandalici e alla devastazione è quella di spostarla altrove, una scuola come la "Falcone"? Una domanda difficile, e drammatica, alla quale vorremmo non dover essere chiamati a rispondere. Ma che dovrà pure avere una risposta, oltre i circuiti di videosorveglianza e oltre le scorte armate. Presto. Prima possibile. Prima che i ragazzi e i bambini dello Zen si ritrovino davvero orfani di sè stessi.
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