CINEMA E TV
"King Kong", il nuovo film-mostro di Hollywood
King Kong
U.S.A., 2005
di Peter Jackson
con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody, Andy Serkis, Jamie Bell, Kyle Chandler
Il gigantesco gorillone King Kong, che nel 1933 Ernerst B. Schoedsak e Merian C. Cooper portarono sugli schermi di tutto il mondo, è figlio della Grande Depressione, del fallimento nel New Deal roosveltiano e delle angosce di una generazione sopraffatta dalla paura e dalla crisi. Forse è per questa ragione che, come tutte le grandi figure archetipiche, torna a galla ciclicamente e ripiomba proprio in quest’epoca segnata da irrazionalità, caos e angosce terroristiche. L’imponente montagna nera che mette a ferro e fuoco New York e si staglia sull’Empire State Building fa ormai parte dell’immaginario collettivo ed è stata oggetto di infinite interpretazioni, riletture e analisi in chiave simbolica o freudiana. Anche questa versione di Peter Jackson, che dopo la trilogia del “Signore degli anelli” si getta senza pause in una nuova impresa mastodontica, è un piatto ghiotto per critici e studiosi in cerca di sottotesti politici, sessuali, psicanalitici e metacinematografici. Lo stesso Jackson sembra prenderci gusto, e ad un certo punto mette in mano ad un suo personaggio (un giovane mozzo che fa parte della spedizione alla volta di Skull Island, l’isola nativa di Kong) il libro “Cuore di tenebra”. Affascinante questa lettura parallela del capolavoro di Conrad – e quindi indirettamente del capolavoro di Coppola a lui ispirato – con gli eventi narrati nel film: in entrambi i casi i personaggi compiono un viaggio nella natura selvaggia e primitiva, che è anche un ritorno all’istinto atavico dell’animo umano, dove persistono ancora la violenza animale e le pulsioni primordiali.
L’unico imperativo da seguire è la fascinazione del cinema («c’è rimasto ancora un po' di mistero a questo mondo, e possono goderne tutti. Al prezzo di un biglietto d'ingresso» è il motto di Denham) e ogni mezzo è buono per raggiungerla, che sia una cavalleria di brontosauri, un attacco di tre T-Rex contro King Kong, o un agguato tra le liane. Peccato che nelle parti restanti, prologo ed epilogo, il regista neozelandese si sia fatto prendere dalla stessa smania filologica che caratterizzava l’adattamento tolkeniano e abbia preferito la ricostruzione fedele e classicheggiante alla follia visionaria e sperimentatrice. A partire dagli Anni Trenta ricreati negli "studios", che sembrano un’illustrazione in appendice di un testo storico: in poche inquadrature c’è ficcato dentro tutto quello che lo spettatore tipo si immaginerebbe, dagli straccioni alle luccicanti insegne di Broadway, da Al Johnson agli operai che lavorano sui grattacieli. Dopo la trilogia del “Signore degli anelli”, film perfetti ma più freddi, Jackson partorisce un’opera decisamente squilibrata e imperfetta, ma calda e passionale (come i suoi primi film). Gli effetti speciali sono, com’era prevedibile, il massimo che la tecnologia può offrire in questo momento. L’eccezionale Andy Serkis (il Lon Chaney Jr. dei nostri tempi), dopo Gollum (l'inquietante mostriciattolo umanoide del "Signore degli anelli"), presta il corpo allo scimmione e trova anche il tempo per impersonare il cuoco di bordo dalla faccia alla Braccio di Ferro. Perfettamente calati nella parte anche un Jack Black dagli occhi saettanti e febbrili e una Naomi Watts da far invidia a Fay Wray, altra interprete nello stesso ruolo dello storico film del "33.
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