CINEMA E TV
Incerto, banale, innocuo: come non fare un film sulla guerra
Jarhead
U.S.A. 2005
di Sam Mendes
con Jake Gyllenhall, Jamie Foxx, Peter Sarsquaard, Chris Cooper, Lucas Black
Mi sia concesso di cominciare con una citazione (anzi, ancora peggio, con la citazione di una citazione). Alberto Crespi, rifacendosi a sua volta a Morando Morandini, nel “Cassonetto” di “Film Tv” (n. 9 di quest’anno) introduce la nozione di “film fesso”, ovvero quel «film in cui il massimo delle ambizioni corrisponde al minimo dei risultati», e dimostra come “Jarhead” rientri appieno in questa categoria. «Ora, voi come iniziereste un film sui marines?» scrive Crespi «In qualunque modo, tranne uno: con i soldati schierati sull’attenti in una camerata, e un sergente che cammina fra loro vomitando insulti. Invece Mendes fa proprio così». Si potrebbe continuare con il giochino: cosa non mettereste mai in un film sui marines? Ad esempio, una sequenza di montaggio in cui le immagini dell’addestramento si alternano a quelle della truppa in marcia (vecchia sin dai tempi di “Ufficiale e Gentiluomo”). Oppure una scena in cui le reclute celebrano al fronte una festività importante – ad esempio il Natale – tra eccessi schizofrenici e nostalgia di casa. O, magari, un inserto in cui un soldato stressato dà di matto e punta il fucile contro il proprio commilitone. Si potrebbe continuare ancora per molto (quali caratteri unidimensionali non vorreste più vedere in un film sui marines? Il pazzo, lo stupido, il padre di famiglia, la checca, l’introverso ecc. ecc.), tuttavia il quadro è già abbastanza chiaro così.
Il regista non sembra prendere con convinzione nessuna di queste strade: la riflessione politica si esaurisce nel solito discorsetto retorico sul “petrolio causa di tutti i mali”, pronunciato da un solitario soldato contestatario; mentre la foga antimilitarista si sdilinquisce in puro cerchiobottismo, che vuol denunciare le degenerazioni delle teste di barattolo, salvo poi simpatizzare per loro in quanto non direttamente responsabili di ciò che commettono. La sceneggiatura procede per frasi fatte e la cronaca oggettiva si perde in mezzo allo stile che Mendes coltiva fin da “American Beauty”: patinato e leccatino (anche quando si parla di masturbazione e pornografia), finto-trasgressivo e pseudo-intellettuale, ma l’aggettivo più calzante è indubbiamente “paraculo”. In verità non è neanche tanto colpa di Mendes, quanto del cinema americano in generale, incapace ormai di osare veramente e fossilizzatosi in convenzioni politically correct. Per poter godere di un’analisi lucida e spietata del conflitto iracheno bisogna rivolgersi alla televisione, dove invece non manca la roba interessante. Il telefilm “Hover There”, per esempio, di cui tutti parlano un gran bene, esaltandone in particolare il crudo realismo (e difatti è stato sospeso dopo la prima stagione). Il più feroce atto accusatorio nei confronti dell’amministrazione Bush rimane però “Homecoming”, episodio della serie del terrore “Masters of Horror” diretto da Joe Dante (uno che di satira politica se ne intende). Poco importa che sia anche un film di zombie, le bordate che lancia non risparmiano proprio nessuno.
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