LIBRI
Incastrati da un giallo che brucia
Un giallo di non ordinaria editoria, chi vi rimane incastrato: il lettore o il narrato? L'architettura dell'ultimo libro della palermitana Valentina Gebbia "Fuoco Grande” (Dario Flaccovio Editore, 13 euro) è fatta da schizzi di giallo su una tela iridescente. Struttura tridimensionale, a più livelli, a più strati come le anime di una cipolla che si scarta scoprendo venature forti e altre flebili visibili agli occhi di una seconda lettura o una terza. Strade nella quotidianità che è siciliana per i colori dei Nebrodi e di Canneto, per le sfumature salate degli orizzonti, per le gestualità colorite che fanno sorridere e per quelle che bruciano.
Così dal mistero dei fenomeni incendiari, dalla sequela di supposizioni più o meno fantastiche, la scrittura della Gebbia dispiega altri misteri, altri microcosmi e i fuochi di Canneto si ampliano diventando metafora della Sicilia e dei suoi soffocamenti. Il giallo diviene quasi un pretesto per sfumature più cupe o più chiare così tanto da perderle nella trasparenza dell’invisibile. «L'essenziale invisibile», una frase-segnalibro battuta ad apertura del libro: una dedica al lettore o un ragguaglio per dire di non perdersi soltanto nella trama ma cercare nello scolo della lettura qualcos'altro? La citazione di Exupéry scava tra le epidermidi del romanzo, gocciola tra le domande di Febronia e le storielle del piccolo Manfredi, tra i diavoli di Soccorsa e le ingenue delusioni di Catena, tra i compromessi di Emanuele e le celebrazioni sessuali e passionali di Arkòs fino all'epilogo che rimanda proprio all’invisibile taciuto.
Giallo dalle partiture persuasive. Romanzo che parla anche di precarietà emotive, di compromessi, di intenti, di parole e di coscienze istupidite tra le bocche di una Sicilia attuale e mitologica, sacra e profana, amata e tormentata, denudata ed ispessita. Conferme di una scrittrice capace di cogliere gli aspetti diversificati dell'isola, mantecarli tra le sue sospensioni a volte amare, disilluse e altre volte speranzose, fatta di immagini vivide rintracciabili nella propria urbana quotidianità. Tanto che scoccata l'ultima parola sulla scena del libro ci si chiede dove la narrazione abbia smesso di essere verità e viceversa.
Partiamo dalla frase di Exupéry: L'essenziale è invisibile agli occhi. Perchè questa scelta?
«Perché è la chiave di lettura del libro e metaforicamente della Sicilia. Perchè spesso quello che si vede non è la realtà, non è l'essenza vera né di questa terra, né di questa nostra esistenza e del senso della vita, quello che si vede è soltanto un'apparenza. Ho provato a trasmettere il mio bisogno di dire agli altri: guardate oltre le cose, non vi fermate al primo strato»
Il titolo richiama l’espressione sicula "focu granni"?
«Sì. Ho recentemente scoperto essere anche abruzzese. Non indica il fuoco. Il fuoco non c'entra nulla, ma indica delle situazioni destabilizzanti, drammatiche»
Ha già raccontato una sicilianità difficile, ad esempio nel suo ultimo documentario “Oi politikòi” sulla Sicilia che nessuno racconta. Perchè gli incendi di Caronia dovevano essere raccontati?
«Normalmente i fuochi siciliani vengono soltanto soffocati. Gli incendi di Caronia sono stati un fatto palese, eclatante, pieno di colore e secondo me quello che non si è visto era veramente importante. Che la mia spiegazione dei fatti sia quella vera, questo non lo sapremo mai. Ho raccontato questa storia perché tipicamente siciliana nel silenzio che l'ha caratterizzata. Considerando che questo evento nel mondo si è verificato soltanto due volte a livello episodico e che l'unico caso di eventi ripetuti è Caronia, così da aver attirato l'interesse di esperti, scienziati, televisioni internazionali, per poi chiudersi tutto così come se non fosse successo nulla. Si è voluto sminuire l'accaduto e l'unica speranza, lo dico nel libro, era proprio che questi fuochi smettessero così da mettere anche lì la parola fine. Probabilmente io ho visto di più di quello che in realtà è stato, probabilmente hanno ragione quelli che dicono sia stato il diavolo o gli Ufo...»
Lei scherza, però dopo queste premesse c'è da chiedersi se “Fuoco Grande” sia da intendersi soltanto come giallo d’invenzione o documentario dai toni sommessi.
«Né l'uno né l'altro. Ho utilizzato la realtà come filo conduttore e su questa ho cucito il mio romanzo. È romanzata la storia, o l'esistenza di Arkòs, sacerdotessa di Afrodite, ma ho anche parlato di verità come gli scempi ambientali che si verificano in Sicilia».
Nel libro si percepisce la sua formazione giornalistica.
«La mia base è giornalistica. Durante la stesura di un libro parlo con chiunque. Ho parlato con fisici, vulcanologi, geologi, con gli abitanti di Canneto; ho respirato il luogo e anche la soluzione finale a cui la scrittura giunge non è del tutto campata in aria o, almeno, potrebbe non esserlo. L’ecomafia è una realtà anche siciliana di cui non si parla affatto, forse perché non spara a nessuno per la strada e quindi... l'essenziale è invisibile».
Febronia e l'io narrante al femminile: novità da intendersi come tentativo di distacco dalla funambolica coppia di protagonisti di un tuo precedente lavoro Fana e Terio, "Estate di San Martino"? O un giorno i tre personaggi palermitani s’incontreranno?
«No. All'inizio della stesura avevo pensato che i protagonisti del romanzo potessero essere dei cugini dei Mangiaracina, poi ho abbandonato subito l'idea e ho capito che volevo raccontare altro e quindi non credo neppure che li farò incontrare. Il bisogno era anche quello di cambiare rispetto a me stessa, perchè rischiavo di annoiarmi. Terio e Fana, comunque, sono vivi e vegeti, tanto che il nuovo libro uscirà in settembre».
Febronia quindi non la rivedremo?
«Non saprei dirlo, perchè non è nata come personaggio seriale»
Da dove è nata l’idea di un parallelismo temporale e narrativo tra le vicende di Arkòs e quelle di Febronia?
«Ogni libro è un'occasione di crescita, anche questo romanzo per me è già superato avendolo scritto due anni fa. Oggi ne parliamo ma io so di essere cambiata, di essere diversa rispetto a quel periodo. In quel momento sentivo il bisogno di discostarmi dai miei personaggi, di raccontare una storia diversa, forse perchè stanca di sentirmi dire che i miei libri posseggono un unico strato, anche se non è vero neanche un po'»
Per l'appunto, perchè ha definito “Fuoco Grande” un romanzo a strati?
«In tutto ciò che scrivo vi sono diversi strati e diverse chiavi di lettura. “Fuoco Grande” rappresenta un mio momento. Quando l'ho riletto pubblicato, ho ritrovato la me di allora, con l'esigenza di rimarcare il concetto: andate oltre le facili interpretazioni. Chi legge dovrebbe cercare di entrare anche nell'anima dello scrittore».
Scrittrice, giornalista, speaker, bancaria, sceneggiatrice e potremmo continuare. Sappiamo però che le sta stretta la definizione giallista.
«A me sta stretta qualsiasi definizione. Non amo le facili etichettature. Questa ad esempio stabilisce che io faccia dei romanzi leggeri, dei gialli umoristici, ma i miei libri non sono solo quello. Se si legge oltre le righe si percepisce un'enorme amarezza, fatta di umanità profonde».
Né giallo, né noir?
«Chiamiamo per convenzione i miei romanzi gialli. Non sono thriller, polizieschi o noir. Il tutto nero non fa parte della mia vita. Cerco di guardare all'esistenza con un sorriso. Raccontare in chiave umoristica alcune cose non significa amarezze, le mie trasformare la mia lettura della vita in superficialità. Tutto il contrario. Io racconto il Borgo Vecchio, perchè è il mio mondo sotto casa, come disse Marc Augé. L'antropologia del vicino in cui è più semplice raccontare quello che conosci meglio. Racconti il tuo mondo, nel mio caso la Sicilia, per poi approdare a valori più universali, raccontando di sentimenti, di persone di cose irrisolte che in Sicilia sono la stragrande maggioranza. Una terra che continuo ad amare, nonostante tutto, quel tutto che io ho ben presente».
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